In Italia il cemento avanza al ritmo di due metri quadrati al secondo, vale a dire 19 ettari al giorno, il valore più alto degli ultimi dieci anni. La situazione è tutt’altro che felice anche perché la realizzazione di nuova edilizia privata risulta del tutto ingiustificata a causa del calo demografico. La verità è che le Amministrazioni comunali, le Regioni e lo Stato centrale non riescono né a disciplinare meglio i piani regolatori, in funzione del numero di abitanti, né a facilitare gli interventi di recupero degli edifici già esistenti ma non più utilizzati. Credo che, in tal senso, una misura di forte incentivazione delle ristrutturazioni o delle ricostruzioni edilizie, simile a quella individuata per le facciate, ma possibilmente senza le distorsioni e le illegalità che ha determinato, potrebbe migliorare la situazione. Un elemento che dovrebbe convincere chi di competenza ad intervenire tempestivamente è quello che riguarda l’acqua piovana. Il suolo cementificato dal 2012 ad oggi avrebbe permesso l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di pioggia e la sua utilizzazione. Al contrario, una tale quantità di acqua, scorrendo su superfici coperte da cemento o da asfalto, non solo non è più disponibile, ma aggrava la ricarica delle falde e la pericolosità idraulica dei nostri territori. L’Italia è un Paese molto fragile, il 16% della sua superficie si trova in zone al alto rischio e la situazione tende a peggiorare per via delle mutazioni climatiche. Eppure nulla di tutto questo sembra scalfire l’interesse di sindaci, ministri e parlamentari, salvo poi a solidarizzare con le vittime. Perché, come diceva Fabrizio De Andrè nel suo brano dal titolo Don Raffaè, “lo Stato che fa? Si costerna s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità”. È davvero troppo poco.