Siamo onesti, la scuola entra in crisi quando il concetto di “diritto al buon esito formativo”, introdotto sostanzialmente negli anni ‘70 e normato dalla riforma voluta dal Ministro Luigi Berlinguer, è stato “comodamente” interpretato come diritto ad essere promossi sempre e comunque, non come diritto ad essere messi nelle stesse condizioni di apprendimento. 

Si è trattato di un buon compromesso che ha messo d’accordo gli insegnanti che non avevano voglia di insegnare, gli alunni che non avevano voglia di imparare e le famiglie che non avevano voglia di dedicarsi ai figli, per non rinunziare alla partita a burraco o a poker con le amiche o con gli amici. 

Il fatto grave è che tutto questo è stato spacciato come “scuola democratica” che doveva permettere a tutti, ma soprattutto a chi viveva in condizioni economiche peggiori, di arrivare al traguardo, a prescindere dalla sua preparazione, colmando a valle quello che era rimasto vuoto a monte. 

Il risultato è stato devastante, perché proprio i figli delle famiglie meno abbienti, fortunatamente non sempre è non tutti, hanno subito i danni peggiori, dato che gli altri andavano al doposcuola o venivano incentivati con “ricchi premi e cotillon” a promozione conseguita. 

La verità è che il diritto allo studio non si garantisce promuovendo chi non lo merita, per non avere discussioni con la famiglia, ma assicurando a chi sta indietro di colmare le lacune che presenta, garantendo corsi di recupero, doposcuola, attività integrative e quant’altro possa servire per realizzare un’uguaglianza nei risultati sostanziali, non certo in quelli formali. 

La promozione fine a se stessa non serve a nulla, se non a deresponsabilizzare tutti e spostare sul cinico mercato le scelte difficili, quelle che lasciano a casa gli incompetenti anche se hanno la laurea.