di Matteo Fano

Un antropologo è un ricercatore che raccoglie, analizza e compara le esperienze di vita individuali per cercare di capire in che modo si influenzano a vicenda e in che rapporto siano con l’ambiente in cui si svolgono. 

L’intervento di oggi è basato su dati che ho raccolto in una decina d’anni di ricerca sui percorsi d’integrazione di giovani ragazzi africani arrivati in Francia senza un titolo di soggiorno e dopo essere passati per l’Italia. 

Me ne servirò per proporvi qualche considerazione di ordine generale sui fenomeni migratori, concentrandomi, in particolare, su quello che ci possono dire delle ineguaglianze che caratterizzano la nostra società; su come il sistema amministrativo di gestione dei flussi aggravi queste ultime invece che risolverle; e su come tutto questo si riflette sulla capacità di sperare in un domani migliore dei singoli individui, finendo per creare dei cittadini di serie B, che hanno meno diritti e sono perciò più sfruttabili dal mercato.

Se osserviamo i fenomeni migratori dal punto di vista delle persone che si spostano, la decisione di partire appare sempre essere presa in reazione a un contesto che è formato da una serie di processi strutturali di natura politica, economica, sociale, culturale e ambientale, che sono interrelati tra loro in modi complessi e che creano ineguaglianze, tanto tra zone del mondo, cioè tra Stati, tra regioni, tra città, tra quartieri, … ; tanto, tra popolazione, cioè tra classi, gruppi sociali, famiglie, … 

Sebbene sia sempre possibile individuare dei flussi – cioè delle regolarità temporali nelle direzioni e nei modi dello spostamento, così come nei soggetti implicati e nelle loro motivazioni – non bisogna mai dimenticare che questi sono sempre e comunque il risultato di una serie di scelte individuali. 

Voglio dire che ogni individuo decide di partire autonomamente per una costellazione di ragioni, più o meno vincolanti, che possono essere simili e analoghe alle altrui ma mai totalmente sovrapponibili.

C’è chi parte, come ho fatto io, per iscriversi all’università e chi è in fuga dalla polizia del suo paese; c’è chi mira a installarsi definitivamente in un altro Stato, magari facendosi raggiungere dalla propria famiglia, e chi conta di tornare a casa il prima possibile; c’è chi non ha legami e chi si è allontanato per poter inviare soldi a casa; … I piani che si intersecano a formare i casi individuali sono moltissimi e questo che rende ogni esperienza personale unica e irripetibile.

C’è però un aspetto che, nella loro diversità, accomuna tutte le esperienze, si tratta della loro motivazione: la ricerca di una vita migliore. Voglio dire che le persone partono, da un lato, perché sentono di non avere più la possibilità di realizzare i propri progetti sul posto; e dall’altro, perché sperano di trovare altrove le condizioni per farlo. 

Mettiamola in questi termini, le persone migrano perché, lì dove si trovano, si sentono incastrate: hanno la sensazione che le loro vite non stiano procedendo nella direzione giusta, non lo stiano facendo abbastanza velocemente o non stiano andando da nessuna parte. 

Tuttavia, è un dato di fatto constatare che, spesso, lo spostamento geografico non risolve il problema della mobilità sociale e, a volte, persino lo aggrava. Ecco perché dico che i percorsi migratori testimoniano di un’ineguale distribuzione sociale della possibilità di sperare: non tutti hanno lo stesso diritto a sperare in un domani migliore, né a sperare nello stesso domani migliore, e nemmeno a sperare di poterlo realizzare nello stesso posto, con la stessa intensità. 

Questo evidenzia un paradosso del mondo moderno: nonostante all’uomo in quanto tale siano teoricamente riconosciuti dei diritti; in realtà non tutti ne godono o, per lo meno, non tutti nella stessa misura.

La prima a evidenziarlo, alla fine della Seconda guerra mondiale, è stata Hannah Arendt, interessandosi alla condizione degli apolidi. Semplificando un po’ il suo pensiero, lei spiegava il paradosso con il fatto che, sebbene l’Illuminismo avesse proclamato i diritti universali dell’uomo, quello che ne garantiva l’effettivo esercizio era un’entità tutt’altro che universale, ovvero lo Stato-nazione. Che era sovrano sul suo territorio e che faceva coincidere la cittadinanza politica con l’identità nazionale.

Capite il problema? Cosa ne bisognava farne di coloro che vivono all’interno dei confini, ma non sono considerati membri della nazione? In quest’ottica c’erano solo due soluzioni possibili: o integrarli tramite assimilazione; o emarginarli, eventualmente espellerli o peggio.

Questo meccanismo, in realtà, non è cambiato più di tanto da allora: ai giorni nostri abbiamo solo reso più flessibili, almeno in apparenza, i metodi e i criteri d’assimilazione, oltre che variato e perfezionato le modalità di marginalizzazione. Certo, ci sono le nazioni unite e tutta una serie di altre istituzioni che, in teoria, servono proprio a garantire che gli Stati rispettino le convenzioni internazionali che hanno firmato, sempre che questi l’abbiano fatto… Ma si tratta comunque di dispositivi che sono sottomessi, almeno in parte, a implicite logiche economiche e di potere. 

Ad esempio, un governo condannato perché non ha adempiuto ai suoi doveri di accoglienza verso i minori non accompagnati o in altro ambito, può ritenere più conveniente continuare a pagare una multa che risolvere il problema. E gli altri governi potrebbero decidere di accontentarsi o fare finta di nulla per non rovinare le loro relazioni commerciali o politiche.

Capite dunque il paradosso?

I diritti diventano effettivi solo nella misura in cui uno Stato, per sua iniziativa o perché costretto, fa in modo di garantirne l’esercizio nel territorio in cui è sovrano, se questo non accade restano astratti, semplici dichiarazioni programmatiche che non servono a nulla.

Questo, come nota tra gli altri il prof. Bettini, è uno dei limiti della società dei diritti che si apre con l’illuminismo e la fine dell’Ancien Régime: prima, infatti, un individuo non aveva tantodiritti in quanto essere umano, ma in funzione delle sue relazioni sociali con altri individui particolari che avevano, nei suoi confronti, dei doveri. Capite la differenza? Pensate, ad esempio, alla pratica dell’ospitalità nel mondo greco – la ξενία – l’ideologia che la modellava stabiliva i doveri reciproci dell’ospite e dell’ospitato, ed erano questi a garantire i rispettivi diritti. Oggi, invece, è il contrario: a tutti sono riconosciuti dei diritti – sia a chi accoglie, sia a è accolto – ma non è chiaro chi abbia il dovere di farli rispettare. 

In effetti – pensateci – almeno a livello delle dichiarazioni esplicite, nessuno (o quasi) nega che uno straniero abbia diritto a una vita felice, degna e piena come tutti gli altri. Gran parte del dibattito, politico e mediatico, si concentra su quale sia lo Stato che ha il dovere di fornire le condizioni per l’esercizio di questo diritto e perché: primo in cui sbarcano? Quello di appartenenza? Quello da cui sono partiti? Un paese terzo? È su questo, alla fine, che si litiga.

In realtà, se il problema fosse solo questo, una volta stabilito qualesia lo Stato responsabile, tutto dovrebbe essere risolto e il nuovo arrivato dovrebbe trovarsi nelle condizioni poter giocare le sue carte allo stesso modo di chi è nato lì, come è successo a me in Francia.

La realtà dei fatti ci dimostra che, purtroppo, non è così. La colpa di ciò, a mio avviso, è in gran parte da far risalire, più o meno direttamente, ai dispositivi di gestione dei flussi, che riflettono quel paradosso tra diritti universali e Stati nazionali di cui parlavamo prima. 

Per prima cosa, bisogna tener conto che molte delle persone che decidono di trasferirsi non hanno la possibilità di spostarsi regolarmente. Non solo i criteri per ottenere un permesso di soggiorno possono essere sono molto restrittivi ma, in più, non è detto che le persone abbiano la possibilità di seguire le procedure regolari. Uno dei miei ragazzi, per esempio, è scappato perché il suo tutore non voleva restituirgli i terreni ereditati dai genitori e minacciava di ucciderlo, mica aveva il tempo di andare a chiedere un passaporto e un visto! E nemmeno poteva andare dalla polizia, visto che il suo tutore ne era membro.

Capite bene che in situazioni di questo tipo – e credetemi sono molte – non ci sono alternative alle vie illegali e, già solo il fatto di doversene servire, modifica in modo radicale la struttura di possibilità e vincoli che si aprirà per il viaggiatore una volta a destinazione.

Tanto per cominciare, il viaggio sarà più lungo. Quello che in aereo sarebbe un viaggio di qualche ora; via terra dura mesi, se non anni. Il punto non è solo che le persone “perdono tempo”, ma che questo può influire sull’esercizio dei loro diritti. Vi faccio un esempio: due dei miei ragazzi sono partiti a 16 anni e mezzo e, in quanto minori non accompagnati, avrebbero avuto diritto a un percorso amministrativo e una presa in carico specifica. Purtroppo, dato che il viaggio è durato più di un anno, all’arrivo erano ormai maggiorenni e sono stati trattati come tali.

Inoltre, questa modalità di viaggio costa cara: parliamo, il più delle volte, di migliaia di euro, molto più di un viaggio in business class. Questo significa che all’arrivo, le persone hanno già speso tutti i loro soldi e hanno già sollecitato amici e parenti per dei prestiti così, non solo sono totalmente dipendenti dal sistema di accoglienza, ma spesso sono pure già indebitati.

E poi si tratta di un viaggio in cui si affrontano violenze, umiliazioni e privazioni che la più parte di noi (per nostra fortuna) non può nemmeno immaginare. Oltre al rischio concreto di morire, c’è quello, per esempio, di ritrovarsi con un handicap permanente che può obbligare a cambiare i propri progetti. Un altro dei miei ragazzi, ad esempio, voleva diventare un calciatore ed era stato persino selezionato per un provino da una squadra di professionisti, la cosa è andata in fumo perché il suo ginocchio era troppo fragile da quando dei militari libici glielo hanno spezzato per divertimento. Ora fa il magazziniere.

Un altro aspetto di cui tener conto è che viaggiando senza documenti, non sempre si può scegliere il proprio itinerario. Ad esempio, si è costretti a entrare nello spazio Schengen da sud – cioè da Spagna, Italia o Grecia – anche se il paese che si vuole raggiungere è un altro, in cui si immagina che sarà più facile e veloce integrarsi: nel caso dei miei ragazzi, questo paese era la Francia, alcuni perché avevano già degli amici sul posto, altri semplicemente perché parlavano francese e non italiano. 

Questo vincolo geografico, in realtà, non sarebbe un gran problema se non fosse che il regolamento di Dublino prevede che il primo paese a registrare la presenza di uno straniero senza documenti sul suo territorio debba poi farsi carico del suo dossier. 

Questo cambia tutto perché una volta arrivati nel paese di destinazione finale, l’amministrazione di questo non ha più il compito di valutare se la persona ha diritto o meno a ricevere protezione internazionale, sulla base delle ragioni che l’hanno spinto a lasciare il suo paese; ma dove ha diritto a richiederla, sulla base di quelle che l’hanno spinto a lasciare l’Italia. È stato così per molti dei miei ragazzi.

Certo, si potrebbe obiettare che, una volta ricevuto il rifiuto da parte delle autorità francesi, sarebbe bastato tornare in Italia e continuare la procedura lì. Ovviamente non è così semplice.

Dovete tenere conto che queste procedure sono lunghe, di solito passano molti mesi, se non anni, prima di arrivare, udienza dopo udienza, a un rifiuto definitivo. E in tutto questo periodo, il richiedente asilo non ha il diritto di lavorare perché lo Stato, in teoria, dovrebbe occuparsi dei bisogni primari: peccato che non lo fa, o non lo fa in modo adeguato. Ad esempio, i posti nei centri dedicati sono insufficienti rispetti agli aventi diritto e i soldi versati in alternativa (circa 400 euro al mese) non permettono di mantenersi, tanto più se uno ha dei debiti da rimborsare o deve occuparsi della famiglia restata in patria. 

Capite bene che, in una tale situazione, le persone cercano di migliorare la propria condizione di vita, anche solo per non dormire per strada e mangiare alle mense per i senzatetto, e in questo modo, piano piano, si integrano nella società, anche se limitatamente a quelle che sono le loro possibilità. Si trovano un lavoro ma in nero, perciò mal-pagato e, alle volte, non pagato proprio, tanto si conta sul fatto che un migrante avrà troppa paura che un’eventuale denuncia gli si ritorca contro. 

Affittano una casa, ma pagheranno cifre esorbitanti per delle stamberghe perché, non potendo fornire garanzie legali, non possono firmare contratti e, perciò, non hanno alternative. 

E, soprattutto, imparano a convivere con la costante minaccia dell’espulsione, che spinge un richiedente asilo a valutare ogni suo comportamento in funzione di quali conseguenze immagina chepotrebbe avere sul risultato della propria domanda d’asilo: ad esempio, uno potrebbe decidere di non denunciare il datore di lavoro che non l’ha pagato per timore di svelare che lavorava in nero. E, nel caso di una persona in situazione irregolare, questa minaccia è ancora più pervasiva: anche solo farsi notare è un rischio perché basta un controllo casuale dei documenti per essere espulso!

Capite che così, tutto diventa un potenziale indizio o fonte di pericolo, tutto deve essere valutato con attenzione: i percorsi da fare, gli orari a cui uscire, i vestiti, le risposte da dare alle persone per strada, … Ma ve lo immaginate lo stress? Come mi ha detto una volta uno dei ragazzi, io e lui vivevamo nella stessa città, ma non la stessa città. 

Ora voi capite che, per quanto questa situazione di vita sia dura, alla fine ci si abitua perché, con il tempo, le persone imparano ad arrangiarsi sempre meglio e si costruiscono una situazione di vita sostenibile che, inizialmente, ha lo scopo di rendere sopportabile l’attesa dell’esito della procedura amministrativa, che si spera positivo; ma che, se questo è negativo, finisce per incoraggiare a restare lo stesso, nonostante questo significhi restare come cittadini di serie B, con meno diritti e perciò facili da sfruttare nel mondo del lavoro nero. 

Del resto, quali sono le alternative? 

Da un lato, si può tornare a casa ma, per prima cosa non sempre è possibile, e comunque significherebbe aver sopportato tutto quanto per nulla. Dall’altro, si può andare in un altro paese ma, questo non darebbe comunque alcuna garanzia di riuscire a regolarizzarsi, e in più implicherebbe perdere quello che si è costruito nel periodo passato sul posto: il lavoro, gli amici, la casa e tutto quel know-how informale accumulato, errore dopo errore. 

Vi faccio un ultimo esempio. Quello di un altro dei miei ragazzi, scappato dal suo paese, a due mesi dal diploma di scuola superiore, perché minacciato a causa della sua attività politica: non che fosse un brigatista, eh, aveva solo organizzato una manifestazione studentesca per protestare contro dei brogli elettorali. Quando l’ho conosciuto dormiva in stazione e leggeva Machiavelli, mi disse che il suo sogno era studiare sociologia all’università: capite bene che eravamo fatti per piacerci! Sono passati 6 anni: non è ancora riuscito a ottenere un permesso di soggiorno, né si è iscritto all’università. Tuttavia, dopo aver subito varie truffe, ha trovato un lavoro come muratore in cui lo pagano correttamente… ma ovviamente in nero, perciò senza contributi. Questo tuttavia gli ha permesso, dopo 5 anni nei centri di accoglienza per senzatetto, di affittare una stanza, anche se la paga più cara degli altri perché, senza documenti, non può richiedere gli aiuti a cui il suo reddito gli darebbe diritto. L’anno scorso, sapendo che c’era stato un cambio di regime nel suo paese, gli ho chiesto se pensasse di tornare. Mi ha risposto così: “Tornare a far cosa? Ormai la mia vita è qui. Ora ho un lavoro e una casa, magari un giorno riuscirò anche a ottenere un permesso di soggiorno, magari mi sposo con una ragazza francese… E altrimenti, beh, andrò avanti: cosa potrei fare d’altro?”. Quando gli ho risposto che potrebbe tornare in Italie per tentare di regolarizzarsi, ha riso “Ma sei pazzo? Cosa faccio? Lascio tutto per ritrovarmi per strada in un paese che non conosco, nemmeno parlo italiano! No, no, qui almeno so come muovermi!”.

Vado a tirare le conclusioni di questo lungo intervento, da cui mi sembrano emergere due elementi principali.

Il primo è che le persone lasciano casa propria perché, a causa di una serie di fattori fuori dalla loro portata, non vi trovano le condizioni necessarie per realizzare il proprio progetto d’avveniree sperano di trovarle altrove.

Il secondo è che, spesso, lo spostamento geografico non ha l’effetto sperato perché, a causa dei vincoli posti direttamente e indirettamente dal dispositivo di gestione dei flussi migratori, le persone si trovano nell’impossibilità di esercitare pienamente i propri diritti, persino quelli che gli sarebbero riconosciuti per legge. 

Così la maggior parte di loro finisce per negoziarsi un futuro al ribasso, tra quelli che la nostra società gli rende accessibili e che, di solito, sono quelli di scarto.

A questi ragazzi viene negato il più basilare dei diritti umani: quello di avere la possibilità di giocarsi le proprie carte per tentare realizzare i propri obiettivi e per partecipare pienamente alla vita sociale, politica ed economica del paese in cui vivono. Non è solo ingiusto nei loro confronti e in contraddizione con i nostri valori: è anche una perdita enorme per le nostre società che, così facendo, non valorizzano appieno un potenziale umano che, se gestito altrimenti, sarebbe un valore aggiunto di incredibile importanza e un fattore di cresciuta economica, culturale, politica e sociale. 

E a quanti obiettano che aprendo le frontiere rischiamo di perdere le nostre tradizioni, controbatto chiedendo quali? 

Non certo quelle illuministe, visto che proclamano i diritti universali dell’uomo.

Quelle cristiane non direi, dato che il più importante dei comandamenti, se ricordo bene, recita di amare il prossimo come se stessi. 

Quelle mediterranee sicuramente no, secondo la xenia il viaggiatore è sacro e, prima anche solo di chiedergli perché è venuto, deve essere rifocillato, vestito e fatto riposare. 

E tantomeno quelle romane, visto che Romolo, discendente di profughi, fondò la città raccogliendo intorno a sé un gruppo di fuggiaschi e chiedendo a ognuno di gettare una manciata di terra della sua patria in una fossa rituale, perché si mescolasse con quella degli altri formare un suolo comune su cui costruire un futuro comune.