L’elevata percentuale di astensionismo che caratterizza, ormai sempre più frequentemente, le varie tornate elettorali, mi porta a riprendere il tema della partecipazione democratica ai processi decisionali.
Ancora una volta, utilizzerò un esempio di cui mi sono già avvalso in passato, ma credo sia molto calzante; mi riferisco al diverso comportamento di chi avvita un bullone, senza sapere quale sia il senso del gesto che compie, e di chi è consapevole che quel bullone fa parte della Ferrari che vincerà il campionato del mondo di formula uno.
Il comportamento gestuale è identico in entrambi i casi, non esiste alcuna differenza formale, né sostanziale, ma lo spirito con il quale si procede è profondamente diverso ed è quello che ne modifica il senso concreto.
Conoscere il significato delle proprie azioni, anche quando esse fanno parte di meccanismi complessi, di cui interpretiamo o conosciamo solo un piccolo segmento, senza essere consapevoli del contesto in cui esso si colloca, ci consente di essere e di sentirci parte dell’intero progetto. Nel caso contrario, invece, non avvertiamo lo stesso trasporto, né lo stesso interesse, insomma, non ci sentiamo coinvolti.
Per usare lo stesso esempio del bullone, chi lo avvita e basta, lo fa per portare a casa uno stipendio: un motivo nobile, ma il resto non gli importa; chi è consapevole del progetto finale, di cui è e si sente parte, lo fa per vincere anche lui, insieme alla Ferrari, il campionato del mondo di formula uno.
In politica avviene esattamente la stessa cosa: se si è consapevoli di quello che si sta facendo, se ne siamo partecipi, tutto è più semplice, tutto è più chiaro, altrimenti abbiamo la sensazione di sentirci delle vere e proprie marionette, nelle mani di un “puparo”, del quale non conosciamo le intenzioni.
Sappiamo che stiamo eseguendo un ordine, magari giusto o necessario, ma siamo consapevoli che chi ce lo ha impartito non ha chiesto il nostro parere.
I partiti, almeno quelli di un tempo, tra i diversi compiti istituzionali che svolgevano abitualmente, si occupavano pure di rendere partecipi gli iscritti delle varie scelte che venivano compiute, organizzando, di volta in volta, incontri, dibattiti, convegni, ecc.
Oggi, invece, il modello di leadership più diffuso esclude dalle decisioni importanti quasi tutti gli aderenti, fatta salva una ristretta oligarchia di yes men, che si guardano bene dal contrastare il leader.
L’effetto che se ne determina è quello di relegare i cittadini al semplice ruolo di elettori, da consultare solo per ottenerne il consenso, ai fini della conquista del maggior numero possibile di seggi, con la conseguenza che quanti non capiscono o non condividono le azioni poste in essere dai vertici del proprio partito o non vanno a votare o cambiano partito.
Qualcuno la chiama volatilità del voto o disaffezione; io preferisco pensare che si tratti di scarsa educazione civica, di inadeguata sensibilità politica, di modesta capacità organizzativa e di limitatissimo sviluppo dei processi interni di adesione e condivisione democratica.
La democrazia è difficile, è complessa, è faticosa, presuppone conoscenza, competenza, rispetto delle altrui posizioni, ma soprattutto impone il diritto/dovere della partecipazione, altrimenti è altro, è fanatico populismo, che con la democrazia ha poco o nulla a che vedere.
In questo periodo è bene stare molto attenti a non creare confusione, perché il populismo genera capipopolo, non certo statisti!
I capipopolo puntano alla propria elezione ed a quella dei propri sodali, puntano alla gestione del potere, a trarre profitti politici diretti; gli statisti pensano all’interesse generale dello Stato, alla soluzione dei problemi contingenti e futuri, non alla loro miserabile gestione.
Insomma, tra gli uni e gli altri c’é una profonda differenza, notarla non è difficile, basta stare un po’ più attenti e partecipare attivamente sempre, senza risparmiarsi, senza incerte deleghe in bianco, perché nessuno sarà in grado di interpretare il nostro pensiero meglio di quanto non possiamo fare noi direttamente.