Confesso che, da qualche tempo a questa parte, non riesco a riconoscere i miei connazionali, i miei concittadini, che trovo molto peggiorati rispetto a quello che sono stati i nostri genitori e i nostri nonni.
Quello che spesso ci sentiamo dire è che stiamo attraversando un momento difficile, un momento di grandi mutamenti e di grandi disagi, nel quale resta poco spazio per gli ideali, per la solidarietà, per l’azione civile.
È vero ma non mi sembra sufficiente a giustificare ciò che sta accadendo. Non credo, infatti, che le nostre condizioni siano realmente peggiori di quelle dei nostri immediati predecessori: non lo sono tanto da comprendere l’immobilismo, l’invidia sociale, la miseria intellettuale rispetto, ad esempio, al periodo bellico e post bellico o agli anni del terrorismo.
Alla fine del secondo conflitto mondiale i nostri nonni erano cittadini di un Paese sconfitto e distrutto, che aveva bisogno di essere ricostruito; negli anni ‘50, ‘60 e ‘70 i nostri padri si trovarono a dover affrontare prima la ripresa produttiva e l’autunno caldo, poi gli anni di piombo.
Né gli uni, né gli altri, però, si sognarono mai di pensare che per far risorgere l’Italia, dunque se stessi e le loro famiglie, fosse giusto involgarire il linguaggio ed i comportamenti, gioire degli errori e delle disgrazie altrui, ispirarsi ai peggiori piuttosto che ai migliori.
Né gli uni, né gli altri, nonostante nessuno navigasse nell’oro, pensarono mai che la loro condizione potesse cambiare facendo peggiorare quella di chi si trovava meglio, anzi si tentava di emulare i più fortunati, di studiare, di scalare la piramide sociale, affrontando notevoli sacrifici.
I nostri nonni ed i nostri genitori, sia pure, loro sì tra mille difficoltà, sotto i bombardamenti o con il rischio di finire mitragliati da un commando delle Brigate Rosse, dei NAR, dei NAP o di altri gruppi eversivi, non hanno mai smesso di sperare né di costruire condizioni più civili ed agiate.
In quei periodi si inseguiva la vita ed il benessere, si aveva una visione di cambiamento, si sperava, per i propri figli e nipoti, in un’Italia capace di ritornare ai vertici dell’economia, come fortunatamente accadeva, anche grazie al loro impegno.
Oggi noi non riusciamo a muovere un passo, pensiamo che qualsiasi cosa sia immutabile, inutile, che non vi sia un futuro migliore, che i peggiori abbiano sempre la meglio e che contro di loro nessuno possa fare nulla, trascurando il fatto che, fortunatamente, la nostra è ancora una democrazia.
Oggi è come se il nostro cervello fosse stato congelato da anni di errori considerati irreversibili; è come se fossimo incapaci di immaginare un mondo migliore, un’Italia migliore, una Sicilia migliore, tanto da rassegnarci all’immobilismo astioso, in cui gli unici strumenti in grado di darci soddisfazione siano l’invidia e la cattiveria.
Oggi non si punta a migliorare se stessi o la propria famiglia, bensì ad impedire che altri ci riescano; non si lavora per alzare il grado di cultura del Paese, ma per abbassare quello esistente, in modo tale da rifugiarci in una gioiosa mediocrità nella quale pasciamo godendone.
Oggi chi non sbaglia i congiuntivi è un pericoloso intellettuale dal quale diffidare, chi lavora è un raccomandato, chi migliora la propria condizione economica è un nemico del popolo.
Oggi l’entusiasmo ha l’effimera sembianza di un gol subito dalla squadra avversaria non quello di un gol messo a segno dalla propria, perché ci siamo accorti che per molti criticare e più facile che governare e che la lealtà è un disvalore.
Ci siamo accorti che per molti studiare è sbagliato, è da sgobboni, e che Wikipedia può sostituire qualsiasi buona lettura, senza che ci si renda conto che l’abbassamento generalizzato del capitale sociale rischia di trasformarci in schiavi di chi questi errori non li commette.
Non è sempre vero che uno è uguale a uno: lo è se l’uno e l’altro sono nelle stesse condizioni, non se uno si è fermato alla tabellina del 10 e l’altro è agli algoritmi.
L’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dice che “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti…”, non che uno è uguale a uno: uguali in dignità e diritti ma, fortunatamente, diseguali in tutto il resto, differenti in cultura, sentimenti, sensibilità, capacità, condizioni, ma “…devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza…”, non con invidia e cattiveria.
Per raggiungere questi obiettivi, però, bisogna uscire, in Sicilia come altrove, dalla ibernazione intellettuale e caratteriale, dall’isolamento che ci è tipico, dall’astio e dalla sudditanza sociale e costruire una visione di forte cambiamento della quale innamorarsi follemente e per la quale, insieme, valga la pena lottare.