Uno dei capisaldi sui quali si fonda la cosiddetta spending review, vale a dire la revisione della spesa, è quello riguardante il calcolo dei costi standard dei beni e dei servizi acquistati dalla Pubblica Amministrazione.

Il concetto appare assolutamente corretto e condivisibile. 

Una penna o un computer, aventi le rispettive medesime caratteristiche tecniche, è giusto che abbiano lo stesso prezzo sia quando il committente è una ASL del Veneto, sia quando è un’Amministrazione comunale della Puglia o della Sicilia.

Un ponte in cemento armato o un chilometro di autostrada, a parità di condizioni, è corretto che costino rispettivamente la stessa cifra, sia nel caso in cui si debbano costruire in Lombardia, sia che la loro edificazione si debba realizzare in Calabria. 

Quando il legislatore nazionale varò il provvedimento sulla spending review, lo fece essendo animato dalla sanissima volontà di abbattere i costi anomali delle amministrazioni pubbliche e di ridurre gli spazi di cattiva gestione di cui, purtroppo molto spesso, si occupano le cronache giudiziarie di tutti i giorni.  

Durante il dibattito parlamentare, a conferma del valore della procedura citata, ricordo, anzi, che emersero cifre assai interessanti riguardanti i risparmi che si sarebbero potuti ottenere, grazie alla revisione della spesa ed all’applicazione dei costi standard nelle gare riguardanti la fornitura di beni o servizi. 

Non sempre, però, le intenzioni sono sufficienti a garantire il raggiungimento degli obiettivi auspicati e non sempre i dati in possesso, di coloro i quali cercano una soluzione, sono sufficienti ad assicurare l’efficacia del provvedimento.

Nel caso specifico, ferma restando la validità del principio, il legislatore nazionale, nonostante fosse stato allertato circa l’errore sistematico al quale stava andando incontro, non dedicò sufficiente attenzione ad un parametro fondamentale: la perequazione infrastrutturale. 

Il termine può apparire ostile o fuori tema ma, come vedremo, ci apparirà più chiaro grazie a qualche esempio che, purtroppo, viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, anzi, nelle nostre tasche!

Se una penna o un computer costruiti in Cina devono arrivare a Milano, con un volo diretto Pechino/Malpensa, è verosimile o no che costino di meno che non se debbano arrivare a Fontanarossa, con uno scalo a Malpensa o a Fiumicino?

Se una tonnellata di acciaio da costruzione, importato dall’Ungheria o dalla Germania, deve arrivare a Padova, costerà di più o di meno che se dovesse arrivare a Cagliari o a Reggio Calabria?

Le risposte a queste domande retoriche sono ovvie, dunque, non mi ci soffermerò neanche per un minuto. 

Torno, invece, ai costi standard, per sostenere che essi hanno un senso e pertanto raggiungono il virtuoso ed equo obiettivo di cui si è già detto, se risultano standardizzate le condizioni generali, ovvero se vengono introdotti quei correttivi di calcolo, capaci di di colmare le differenze legate al contesto.

È questa una delle ragioni per le quali, se la Sicilia vuole realmente essere e sentirsi parte dell’Italia, non può prescindere del raggiungimento della perequazione infrastrutturale, perché è da essa che passa qualsiasi possibilità di rilancio della nostra regione, dunque, è da essa che passa qualunque ipotesi di aumento dei livelli occupazionali e della qualità della vita.

Insomma, per uscire dalla crisi in cui si trova l’Isola da tantissimi anni, non basta proclamare acriticamente l’autonomia, bisogna creare le condizioni attraverso le quali ottenere gli stessi chilometri per superficie e per abitante di quanti, in media, ve ne siano nel resto del Paese; bisogna percorrere le tratte ferroviarie della stessa lunghezza nello stesso tempo, ecc. 

Certo: il problema non lo si risolve in pochi anni: ce ne vogliono tanti. E nel frattempo cosa facciamo?

La domanda è pertinente e merita una risposta che parta da lontano: dalla nostra legge fondamentale. 

L’articolo 3 della Costituzione afferma che: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” 

Ciò posto, per non perdere né tempo, né opportunità, ed applicare il dettato costituzionale, si potrebbe cominciare con il risarcire i disagi legati alle differenti condizioni descritte, ma come? 

Ad esempio, pretendendo una consistente riduzione del costo dei biglietti aerei e ferroviari o delle tariffe dei traghetti, per proseguire con il contestuale varo di un piano perequativo di infrastrutture, che sia in grado di colmare le costose differenze alle quali abbiamo fatto cenno e di cui siamo incolpevoli vittime.

Neanche questo, però, potrebbe essere sufficiente, se la Regione non dovesse utilizzare fino in fondo le competenze di cui dispone statutariamente per semplificare le procedure riguardanti le opere pubbliche, ma anche per liberarsi di qualche burocrate infedele!