Provate a chiedere a qualcuno di fare qualcosa che lui non ha nessuna voglia di fare. Fingerà di non aver capito, proverà a cambiare discorso, si girerà dall’altra parte e voi, a quel punto, vi rassegnerete.
A Catania la rassegnazione sarà accompagnata da una parola che può non sembrare logica ma che, come vedremo, ha una sua ragione. La parola è suffuru , che tradotta letteralmente significa zolfo.
Sì, zolfo, il famoso prodotto che si estraeva in grande quantità da numerose miniere siciliane e che si raffinava nelle industrie di trasformazione, che si trovavano in quello che oggi è diventato il Centro Fieristico delle Ciminiere, in viale Africa.
Ma perché si risponde così? La storia è lunga, ma proverò a sintetizzarla.
Un giorno un uomo, che doveva recarsi in un paese diverso dal suo, chiese un passaggio ad un carrettiere che trasportava zolfo, il quale decise di chiedergli in cambio un compenso, che doveva essere calcolato in base al peso del passeggero, così come si faceva per il materiale che stava trasportando.
Una volta messisi d’accordo, stabilendo il corrispettivo per il viaggio, i due si misero in movimento ma, quando la strada si fece particolarmente impervia, il carrettiere chiese al passeggero di scendere dal mezzo per alleggerirlo e favorire il passo del mulo che tirava il carretto.
L’uomo non rispose e il carrettiere gli ribadì la richiesta, senza ottenere risposta nemmeno questa volta.
Al terzo invito, un po’ più pressante dei precedenti, però, con molta flemma ed altrettanta liscia il passeggero invitò il suo interlocutore a mantenere la calma, e gli fece notare che era stato lui ad averlo indotto a pagare, come se fosse suffuru, cioè zolfo da vendere, e che pertanto, in nessun caso, poteva parlare.
Da quel momento il termine suffuru diventò un modo di dire che è giunto fino ad oggi e che viene usato anche da chi non ne conosce l’origine, sia essa vera o frutto di una tra le tante leggende che riguardano la città di Catania, in cui erano molte le raffinerie di zolfo.
Un’altra espressione che si utilizza per sottolineare il fatto che qualcuno stia parlando a vanvera e non vada al sodo è chiacchiri e tabacchieri ‘i lignu, che compare nel 1976 in un’opera di Camilleri su Federico II di Svevia ed è ripresa persino in un testo di Giorgio La Malfa, ex parlamentare del PRI, che lo attribuisce all’economista Enrico Cuccia.
Il citato modo di dire ha una origine siculo-napoletana ed ha una versione più completa cioè chiacchiri e tabacchieri ‘i lignu lu Munti non ni ‘mpigna, che letteralmente vuol dire che chiacchiere e tabacchiere di legno il Monte dei pegni non ne accetta, come per dire che non valgono niente, in quanto non vengono a capo di nulla e non hanno alcun senso.
Qualcosa che si avvicina alla stessa espressione è non mangiu chiacchiri, che in questo caso sono le chiacchiere, vale a dire le parole prive di sostanza, non certo le chiacchiere intese come dolci di carnevale.
L’haia rittu sempri: ‘a lingua siciliana non è facili, amara a cu’ c’ammatti. Si ci fussi a laurea in sicilianu cinc’anni non c’abbastassuru. Menu mali ca ancora quacche ‘ntreppiti c’è, ma cu sapi s’arrestunu ppi tantu tempu…!
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