L’ironia catanese ha due facce, ‘a liscia, molto inglese nello stile, e u’ siddiu, che è una sorta di noia mista a fastidio.
‘A liscia è quella che fa dire al catanese che cade dall’autobus ca iddu scinni sempri accussi, e non ci runa sazziu a nuddu, oppure fa dire all’amico cornuto ca so muggheri avi tanti amici; u’ siddiu è invece indolenza, insoddisfazione, tedio che si mescola con ciò che in altre parti d’Italia potrebbe definirsi seccatura, cruccio, impaccio, grana, come quella che si può provare davanti all’invito a pranzo da parte della suocera, che non sa cucinare e per di più è anche impicciona.
Chi ‘nnicchi e ‘nnacchi e cassatelli ‘i Pasqua! Ni to matri non ci vegnu picchi mi siddiu. To’ matri è ‘na bella pumata pe’ caddi, non ci vegnu! Megghiu ‘n duluri di testa.
In realtà, u’ siddiu potrebbe non essere soltanto un fastidio, ovvero una seccatura, come accennato prima, dato che potrebbe costituire un sintomo, più o meno evidente, di una forma latente di depressione, nel qual caso è bene rivolgersi ad uno specialista.
U’ siddiu depressivo si distingue do’ siddiu da insoddisfazione o da grana in base alla frequenza con il quale si manifesta di solito.
C’è una storiella che descrive in maniera evidente u’ siddiu da insoddisfazione. È quella che racconta di una coppia di marito e moglie che consumano amplessi non molto soddisfacenti, tanto che la moglie, durante uno di questi, dice al marito: senti, beddu, o trasi o nesci, picchì cu’ stu trasi e nesci mi siddiu.
In realtà nella frase della donna non c’è solo fastidio e insoddisfazione, c’è anche liscia, dato che il non detto riguarda le scadenti arti amatorie dell’uomo, comunicate in maniera ironica e forse pure sfottente.
Un’altra storiella tipica della liscia catanese è quella che riguarda sempre una coppia di coniugi al mare, come se ne possono vedere a migliaia alla Plaja o alla Scogliera.
Lui dice a lei: guardo il cielo e vedo te; guardo il mare e vedo te; guardo il sole e vedo te. Allora mi ami tantissimo, replica lei. No! Risponde lui con decisione, è ca t’avissa livari davanti ca mi fai ombra!
Il catanese è fatto così e lo è anche nella letteratura dialettale del grande Nino Martoglio, il quale, alla protagonista di “Civitoti in Pretura”, la famosa Cicca Stonchiti, interrogata dal giudice che gli chiedeva se fosse stata ferita nel tafferuglio, fa rispondere con una frase anch’essa a cavallo tra la liscia e u’ siddiu. No, eccellenza, no fu ‘nto tafferugliu, fu ‘n pocu chiù dda’, alludendo non alla rissa venutasi a creare alla Civita, per la quale alcuni dei partecipanti erano finiti sotto processo, bensì all’organo sessuale femminile.
Il catanese, ad esempio, sempre in tema di linguaggio traslato intriso di liscia non dice che ha sentito dire, da questo o da quello, qualcosa di sgradevole o meno, ma dice mi friscaru aricchi, che letteralmente significherebbe: ho sentito un fischio alle orecchie. Ma che, in forma traslata, vuol dire ho ricevuto un avvertimento.
C’è pure una ulteriore definizione che non è meno interessante delle precedenti, è la seguente: mi friscanu aricchi ! Sa’ cu mi muntuvau! Che letteralmente vuol dire: mi sento fischiare le orecchie. Chissà chi sta parlando di me!
Questa espressione, di uso comune ancora oggi, trova origine in un antico e diffuso pregiudizio popolare.
Anticamente, infatti, si credeva che, quando si avvertiva un ronzio ad un orecchio, ci si trovasse “sulla lingua di qualcuno”.
Questa espressione, di uso comune ancora oggi, trova origine in un antico e diffuso pregiudizio popolare.
Anticamente, si credeva appunto che, quando si avvertiva un ronzio ad un orecchio, ci si trovasse sulla lingua di qualcuno.
Chi fa fari. Oggi ci sunu l’otorini e iddi, ca sunu dutturi, ‘u sanu subitu ca non c’è nuddu ca spatulia di nuautri e ca u’ friscu n‘aricchia si chiama otite.
I tempi canciunu ma a liscia nustrana arresta e si sviluppa iornu dopu iornu, comu sanu i cabarettisti marca liotru!
Quannu attruvati ‘n catanisi ca non è tannicchia lisciu stati accura, picchi di sicuru non è catanisi e si ppi sbagghiu è palemmitanu siti pessi. Cetti palermitani, ppi futtuna non tutti, sunu lisci comu ‘ncoddu ri buttigghiuni.
Iddi accuminciunu a diri ca l’arancinu si chiama arancina e non v’u livati chiù d’incoddu. Chi ci vuliti fari, s’accoddunu accussi e si sentunu patruni!