È meglio la centralizzazione o il decentramento? È meglio un Paese a guida unitaria o tanti territori autonomi? È meglio il modello a guida “politica” o quello a guida “manageriale”. La ricerca del “modello giusto” e buono per ogni cosa è ciò che toglie il sonno a noi italiani.
Cerchiamo da sempre il sistema elettorale che accontenti tutti, così come siamo impegnati a riformare la pubblica amministrazione da quando è nata. E così con la scuola, con la sanità e con ogni sistema organizzativo. Perché, riconosciamolo, presi singolarmente, siamo persone generose e geniali, ma quando formiamo un gruppo ci trasformiamo.
In gruppo, prevale il timore che gli interessi personali possano essere sacrificati e nasce, sempre più forte, il desiderio di farli prevalere a dispetto di qualsiasi interesse comune. Ci sembra persino che fare qualcosa nell’interesse di tutti, indistintamente, sia un’occasione sprecata. E che, se fossimo stati più bravi, avremmo potuto orientare ogni decisione a favore di un parente, un amico o persino qualcuno lontano, pur di sentirci appagati e avere in cambio riconoscenza.
È su questi cardini che si è fondata la nostra Repubblica, i cui palazzi amministrativi (come affermava Sabino Cassese) pullulano di parenti e amici, come se la pretesa e sbandierata oggettività delle selezioni pubbliche riesca a piegarsi, senza problemi all’italico sentimento della parentela.
Una logica accettata da chi se ne avvantaggia e consentita da chi ne è fuori, nella speranza di potersene un giorno avvantaggiare. Che nessuno combatte fermamente e di cui nessuno si scandalizza.
Ed è una logica costosa che sottrae risorse pubbliche e affida le più importanti decisioni a persone che sembrano più espressioni di “club” che di istituzioni, tanto da indurre qualcuno a coniare l’espressione “Roma ladrona”.
Una capitale appesantita dall’ingordigia e dai vizi dell’aristocrazia amministrativa, certamente sottrae risorse al Paese che lavora e ne impedisce lo sviluppo. Nasce così la frattura tra il modello “romano” della politica affarista e sprecona e il nord efficiente e laborioso, capace di organizzare la propria vita con modelli diversi e più funzionali, al punto da chiedere autonomia o persino secessione. Del sud, nessuna notizia.
La Milano da bere, europea e continentale, dinamica e imprenditoriale, si presenta come modello alternativo a quello “romano”, caratterizzato dall’uso di sistemi aziendali, dalla centralità del “valore aggiunto”, dal culto dell’efficienza e del risultato, anche in modo “borioso” e supponente.
E anche il sud del Paese, che non riesce a elaborare un proprio modello, si trova nella scelta tra il “sistema romano” improntato alla priorità delle decisioni politiche al di sopra di qualsiasi altra ragione e il “sistema milanese” improntato alla managerialità di qualsiasi azione umana.
Due modelli così diversi che però hanno una cosa in comune: l’interesse per il “vantaggio” (che per i primi è politico e per i secondi è valore aggiunto) e il disinteresse per la collettività (che per i primi è solo una “base elettorale” e per i secondi solo “clienti”).
Finché, come un vero flagello è arrivato il Covid 19 che ha messo alla prova ogni sistema e fatto emergere la realtà. Il sistema politico è entrato in crisi, prima cercando di risolvere le emergenze con il solito metodo della nomina di commissioni ed esperti e poi rinunciando a ogni divisione in nome della spartizione delle risorse che provengono dall’Europa (ma che sono sempre italiane). Il sistema manageriale, dopo avere preteso autonomia dal “metodo romano”, ha inanellato una serie infinita di flop, dalla inadeguatezza delle percezioni sul fenomeno, alla sottovalutazione della gravità, alla ricerca del solito profitto, anche in emergenza, fino alla palese inefficienza.
Tutto ciò perché i due sistemi, come abbiamo detto, si assomigliano, nella priorità della ricerca del profitto piuttosto che dell’interesse collettivo.
Nel frattempo, chi sta salvando il Paese sono quelle aree geografiche nelle quali non è la politica, né il management a determinare le azioni, ma la solidarietà, la passione e l’attenzione alla vita umana.
Se fossimo un popolo consapevole e intelligente, dovremmo dare maggiore spazio a questi modelli di efficienza sociale nei quali, noi italiani, sappiamo essere campioni, proprio grazie a quegli “assets” (come li chiamano i manager) che nei sistemi profittevoli, sia politici che aziendali, non sono presi in considerazione.
Certamente, se un giorno usciremo fuori da questa pandemia non sarà, né per il merito delle decisioni politiche, né per l’organizzazione manageriale, ma solo per ciò che di “umano” ci accomuna, quando siamo capaci di consentire che prevalga.