di Ibrahima Sory Bangoura
Il 22 dicembre 2024, presso l’associazione culturale “Garage Art Platform” di Enna (via Leonardo da Vinci 2), la dott.ssa Bjelogrlic, avvocata impegnata nella tutela dei diritti umani e nella protezione di minori non accompagnati, ha moderato una tavola rotonda in occasione della proiezione del docufilm e della mostra fotografica “NEVER STOP” di Carmelo e Mattia Stompo.
Nel corso di un interessante scambio con il pubblico e con altri due relatori – Paolo Garofalo, presidente del Centro Studi “Napoleone Colajanni”, e Matteo Fano, antropologo, membro del suddetto centro e collaboratore dell’ambulatorio di etnopsichiatria di Pergusa – gli autori hanno discusso dei temi evocati in questo progetto, che è al contempo artistico e documentaristico.
Questa “doppia natura” del progetto non rappresenta una contraddizione, ma risponde alla funzione primaria dell’arte che, in quanto opera umana adibita a toccare i sensi e le emozioni di un pubblico, non è solo un’espressione estetica, ma deve anche coinvolgere e far riflettere chi ne fruisce. Si tratta, dunque, di uno strumento che permette allo spettatore di connettersi con la realtà che lo circonda in modo più profondo e consapevole, rendendo così più ricca la sua percezione del mondo.
Da questo punto di vista, questo lavoro fotografico e filmico può dirsi un successo.
Il progetto ruota attorno alla terribile e drammatica storia di Arouna Diouf, un migrante senegalese partito dalla sua terra a soli 17 anni. Attraverso le immagini fotografiche e le sue parole, viene raccontato il viaggio intrapreso da questo giovane per trovare la sua strada nel mondo: un viaggio che lo ha portato a lasciare la vita familiare e ad affrontare il deserto e il mare fino a raggiungere il suolo europeo.
Questa testimonianza colpisce in modo molto forte e stimola la riflessione. Lo spettatore finisce, infatti, per partecipare in prima persona a questa esperienza di migrazione, immedesimandosi in Arouna Diouf.
Per prima cosa, scopriamo che il ragazzo ha deciso di lasciare casa spinto dalle condizioni di vita sfavorevoli: un contesto familiare difficile, precarietà economica, mancanza d’istruzione, denutrizione, insicurezza… È la sua ricerca di un futuro migliore e più luminoso, cioè di un luogo dove poter svolgere un lavoro all’altezza dei suoi sogni e offrire rifugio a una famiglia, che lo ha spinto verso l’Europa, facendogli affrontare una serie di esperienze traumatiche: rapimenti e incarcerazioni, violenze e torture, fame, frodi e sfruttamento del suo lavoro, sempre sottopagato, se non del tutto non retribuito.
Il racconto è soprattutto visivo: si svolge attraverso queste commuoventi immagini che sintetizzano e simbolizzano, ognuna, un momento chiave del viaggio. Alcune mi hanno particolarmente colpito, risuonando con la mia esperienza personale.
La prima è quella in cui appaiono solo delle impronte di passi su una duna di sabbia, che io immagino calda, senza che sia inquadrato colui che le ha lasciate… “Chissà dov’è?” ci chiediamo pensando alla pericolosità del deserto.
Un’altra fotografia che mi ha toccato è quella in cui Arouna, su una spiaggia, guarda il mare davanti a sé. Lo immagino triste e spaventato all’idea di doverlo attraversare, come è stato per me. Io ricordo bene quel momento di depressione: quella sensazione di vuoto, quella solitudine, quell’angoscia e quella disperazione.
Le vicende dolorose, le difficoltà e i momenti di tensione vissuti da questo giovane, tuttavia, non si sono conclusi con l’arrivo sul suolo europeo.
Infatti, come scopriamo nel docufilm, quell’emozione di gioia e sollievo vissuta da Arouna alla vista dei mezzi del soccorso marittimo e dell’isola di Lampedusa, un’emozione che gli ha fatto gridare “Allahu Akbar” (ovvero “Dio è grande”), è stata di breve durata: poco dopo lo sbarco viene arrestato con l’accusa di essere un complice dei trafficanti. Questo solo perché, dal momento che era il solo passeggero che, in virtù del fatto di essere cresciuto vicino al mare, sapeva condurre una barca, durante la traversata del Mediterraneo aveva preso in mano il timone, portando tutti in salvo.
Così, dopo aver attraversato il deserto e il mare, l’arrivo sul suolo europeo, da sogno, si tramuta in incubo per il povero minore. Prima, viene ingiustamente incarcerato in una struttura per adulti. Poi, dopo essere stato rilasciato in seguito al riconoscimento della sua innocenza e un periodo travagliato tra un centro di accoglienza e la strada, finisce di nuovo in detenzione, di nuovo senza colpa, questa volta in un centro di espulsione. Qui, durante il suo periodo di permanenza, scoppia una rivolta a cui, seppur senza prove convincenti, è accusato di aver partecipato. Così, ormai maggiorenne, finisce di nuovo in carcere, dove si trova tuttora.
Come accennavo all’inizio, anch’io che scrivo questo articolo ho sono passato per alcune delle esperienze descritte da Arouna. La mia storia è simile alla sua, almeno per quanto riguarda la partenza e il viaggio, quello che cambia è cosa è successo all’arrivo. Di questo, devo ringraziare l’impegno degli operatori del centro di accoglienza “Morgantina” e dell’ambulatorio di etnopsichiatria di Pergusa che si sono spesi per aiutarmi, senza risparmiare le forze. È anche grazie a loro se la mia storia è diversa.
Una cosa che il mio percorso mi ha insegnato è che, per valorizzare la vita di una persona rendendola degna di essere vissuta, bisogna tener necessariamente conto sia della dimensione sociale che di quelle culturale, economica e politica: sono tutte queste insieme, infatti, che ci rendono uomini.
Se una comunità non ha coscienza sociale, non è solo la condizione delle classi più sfavorite ad essere ulteriormente indebolita, perché quando i diritti umani e, in generale, sentimenti di compassione e solidarietà verso i propri simili vengono messi al di sotto degli altri valori, è la vita di tutta la collettività a risentirne.
La coscienza culturale è anch’essa molto importante perché è in funzione di essa che si orienta il progresso, tanto dei singoli che, di conseguenza, delle comunità. Non basta studiare, è necessario anche aver avere una buona consapevolezza delle proprie radici, per saper accogliere la diversità, per accettare il secolarismo e per non tremare davanti alla complessità del mondo contemporaneo, cioè per non cadere nella xenofobia e nel razzismo.
Tuttavia, perché tutto questo sia possibile è necessario che ci sia una solida base materiale che lo sostiene, questo implica che la coscienza economica di una comunità dev e essere guidata da una chiara e ben orientata coscienza politica.
È solo attraverso l’integrazione di tutte queste dimensioni che una comunità può sviluppare quella “coscienza umana”, da cui nascono valori come la collaborazione, il mutuo soccorso, la pietà, il rispetto delle differenze, l’assistenza ai più deboli, l’attenzione per il prossimo e il riconoscimento di ogni individuo.
Dedico questo brano al mio popolo, che ora è il popolo d’Italia, perché il mio destino, il futuro che ho scelto, è quello di vivere tra i 60 milioni di abitanti di questo bellissimo paese. Mi rivolgo dunque a voi, anzi a noi, nel domandarmi come bisogna comportarsi nei confronti di quelle persone che, come me, hanno affrontato viaggi molto duri per giungere qui e che hanno alle spalle storie spesso terribili, tanto che alle volte arrivano affetti da traumi psicologici e malattie mentali. Io dico questo: rompiamo il silenzio contro quelle ingiustizie che rendono molti migranti delle persone narcisiste e arrabbiate.
I più, infatti, non sono così fin dall’inizio, ma lo diventano in seguito, a causa delle minacce, dei rifiuti e della negazione dei propri diritti che subiscono, talvolta per ragioni discutibili, altre volte in modo del tutto arbitrario, all’interno della società europea. Questo è pericoloso per tutti, poiché in questo modo degli individui che potrebbero contribuire alla comunità in cui sono stato accolti diventano invece dei criminali o comunque delle persone ostili, che, a lungo termine, potrebbero diventare una minaccia. Al contrario, io propongo di valorizzare l’alleanza tra tutti gli abitanti di un paese, vecchi e nuovi, di applicare il principio di uguaglianza tra loro, d’incoraggiare la socialità e di creare le condizioni per il mutuo rispetto della dignità individuale, nella convinzione che ogni essere umano può diventare una risorsa importante per una comunità quando vi è ben integrato.
È importante agire in questo senso, e farlo in fretta, perché questo fenomeno di “narcisismo rabbioso” di cui ho parlato si sta sviluppando davanti ai nostri occhi, diffondendosi velocemente tanto in Europa, che in Africa.
Ad esempio, molti sono i giovani africani che, come nel caso del Congo Brazzaville, scappano in altri paesi del continente a causa di guerre e conflitti territoriali a cui sono spesso costretti a partecipare loro malgrado, ma senza che gli Stati e le società civili dei paesi di accoglienza si facciano carico delle loro situazioni. Questi ragazzi, la cui maggior parte ha tra 17 e i 35 anni, restando orfani di aiuti e di sostegno, in molti casi si trasformano in criminali senza pietà, finendo nelle carceri o per morire in modo violento, quando invece potrebbero essere integrati con profitto nelle comunità che li ricevono.
Per quanto riguarda l’Europa, le disuguaglianze che generano questo fenomeno riguardano in particolare quegli stranieri che chiamiamo “migranti”: giovani che subiscono traumi sia prima della partenza, sia durante il viaggio che dopo l’arrivo, così che non riescono a lasciarsi alle spalle la propria sofferenza. Non deve stupire, infatti, che molti, per non dire i più, soffrano di disagi psichici, quando non di vere e proprie patologie. La maggioranza di loro, però, tace il proprio dolore, seguendo i dettami dell’educazione africana, che si riassume in: non alzare la voce quando a parlare è un adulto o un estraneo e stare zitti a meno che non ti sia chiesto qualcosa. Questi che tacciono, però, sono gli stessi che hanno sogni luminosi, nonché l’intelligenza e la motivazione per realizzarli… almeno finché, nel silenzio della società, le loro aspirazioni non muoiono e le loro risorse non si esauriscono nelle carceri e nei centri di detenzione.
La coscienza sociale dovrebbe spingerci a voler comprendere tutte le sfumature dell’essere umano e della sua esperienza nel mondo, anche in relazione a quanto accade in questo mondo moderno, dove i diritti degli stranieri sono spesso negati e questi finiscono per subire delle ingiustizie che derivano da uno stutus giuridico-amministrativo precario