A Catania c’è caffè e caffè in quanto anche per il termine caffè, come è stato per altri di cui abbiamo già parlato, i significati, come vedremo, possono essere molteplici ed il solito carabiniere di Belluno o di Pordenone, al quale è stato dato l’incarico di sbobinare una intercettazione telefonica, potrebbe confondersi o comunque potrebbe trovarsi in grande difficoltà.
Cominciamo con la pronuncia. A Catania il caffè non esiste, esiste u’ cafè con una sola F, così come non esiste il ferro ma u’ feru, non esiste la terra ma ‘a tera, non esiste la birra ma ‘a bira, anzi, ‘a menza bira, o come si dice adesso, ‘a biretta anche se, ad esempio, arrabbiato non si dice arabiato, con una sola R ma arrraggiatu con tre R, per esprimere meglio il grado di fastidio che si prova.
‘A chiamunu biretta, mancu su avunu iutu a scola ‘nsemi. E poi picchi biretta, semmai di dici scioppinu di bira, o menza bira. Ma chi ni sanu sti giovani di oggi?
D’altra parte ricordiamoci che ci troviamo davanti ad una vera e propria lingua, con tanto di eccezioni fonetiche, lessicali e grammaticali.
A Catania, giusto per fare un altro esempio in cui ci si imbatte di frequente, non si dice è stato, ma ha statu, con una sorta di sostituzione del verbo ausiliare essere con il verbo ausiliare avere.
Come si può leggere in qualsiasi libro di grammatica siciliana, i due verbi ausiliari utilizzati nel nostro linguaggio sono Aviri (Avere) e Essiri (Essere).
Il verbo Aviri è l’unico verbo ausiliare che si usa per formare i tempi composti dei verbi attivi, anche se intransitivi e riflessivi. Essiri si usa solo per i verbi passivi.
Nuautri avemu a mania di aviri. Giuvanninu Verga ci scrissi ‘n romanzu: mastro don Gesualdo, tutto ‘ncentratu supra ‘a robba, cu du’ B, ‘n autra eccezioni: in italianu si dici roba, ‘n catanisi si dici robba, ca significa cose possedute, ricchezze, beni, ma anche stoffa. “Mi rassi du’ metri di robba ppi fari cammisi”, diceva me nonna quannu ieva ni Scionti e Vadalà, a via Prefettura, unni travagghiava di nicu nicu me ziu Iuzzu.
Ma torniamo al caffè da cui abbiamo iniziato. A Catania, quando si va al bar, ovvero al caffè, inteso come pubblico esercizio, in cui si possono consumare caffè, té, bevande varie e dolciumi, e si chiede al barista un caffè, ci si sente rispondere con una serie di domande: ristretto, lungo, decaffeinato, schiumato, macchiato, corretto, in tazza calda, in tazza fredda, in vetro, da asporto, ecc.
Paremu ‘nta fammacia, unni ci sunu pinnuli e pinnuli. Ma non è chissu u’ fattu. Ppi nuautri catanisi u’ cafè è ‘na cosa sacra. Mentri unu si pigghia u’ cafè s’a lassari ‘nta paci, tranni ca u’ cafè sevvi propriu ppi parrari, ma s’ava sapiri prima.
Nei bar catanesi, poi, c’è un’abitudine unica, del tutto diversa dalle altre città. Nella patria di Bellini, nel prezzo del caffè è incluso un bicchiere di acqua che altrove, per esempio a Milano, si paga a parte, ma è inclusa anche la consultazione del giornale, che sta su uno dei tavolini, a disposizione dei clienti, e l’uso del bagno, al quale, in alcune città, si può accedere solo inserendo una moneta nell’apposita fessura.
Ma sunu pazzi? Ppi nuautri iri o’ bar significa chiacchiariari cu n’amicu, chiacchiariari co’ barista o starisi mutu p’arripusarisi tannicchia i cirivedda, ma significa macari canciarici l’acqua all’alivi.
Si ti scappa all’improvviso e non c’hai ‘na nichila chi fai? Non è ca ta poi fari d’incoddu? Ci vilissi macari ca s’avissa pavari: chissi sunu incivili!
In effetti, talvolta, la cosiddetta civiltà del Nord è solo un pretesto per fare diventare business anche un bicchiere d’acqua. Fortunatamente per noi, a Catania, simili abitudini barbare non sono ancora arrivate e se qualcuno si azzarda a fare qualcosa di simile ‘i pinnacchi si fetunu!
E poi ci sono i modi di dire, ascuta carabbineri di Belluno o di Pordenone: andiamo a prendere un caffè, vale a dire iemuni a pigghiari ‘n cafè, può significare un semplice invito di cortesia, ma anche una sfida o un modo per chiarire qualcosa in maniera pacifica.
Così come finiu a cafè vuol dire che la discussione, ovvero la contesa, è finita bene. E poi ‘n cafè non si neia a nuddu.
È noto, infatti, che noi catanesi, oltre ad essere cortesi, siamo anche ospitali e concilianti, d’altra parte abbiamo ereditato la democrazia e la politica dai greci, le abilità commerciali dai fenici e dagli arabi, il desiderio di conoscenza dai normanni e dagli svevi.
E i romani? Dai romani cosa abbiamo ereditato?
Ppi fauri, non parramu de’ romani ca chiddi fonu boni sulu p’ammazzari a Sant’Aituzza, ppi mettiri tassi e ppi livarini ‘a libittà. E finemula cà picchì di tannu a ora non a’ canciatu nenti!