C’è una cosa che, nonostante tanti anni di impegno professionale e politico, non riesco a ben comprendere: perché molti di noi, per convincersi che una cosa sia giusta o sia sbagliata hanno bisogno necessariamente di un obbligo o di un divieto? 

Perché il buonsenso non deve essere sufficiente? Perché dobbiamo sempre aver bisogno di un “pastore”, di un “condottiero” o di un “duce” che ci indichi la via, e non dobbiamo provare a capire da soli in che direzione andare per raggiungere un determinato obiettivo? 

Ma c’è di più: perché dobbiamo continuare ad essere trattati come fossimo dei cavalli, a suon di bastone e carota? Perché non siamo capaci, o non vogliamo, costruire una comunicazione chiara ed imparziale, che separi i fatti dalle opinioni?

Non riesco a spiegarmelo, eppure è quello che accade tutti i giorni in qualsiasi ambito sociale. O forse me lo spiego perfettamente: dobbiamo essere trattati non da cittadini, ma da consumatori, non da danti causa di un’azione, di qualsiasi natura, soprattutto se di governo, ma da suoi destinatari. 

Questo accade perché abbiamo rinunziato a partecipare alla vita pubblica e perché ci rifiutiamo di contribuire alla progettazione delle misure che vengono adottate, preferendo limitarci a protestare, anzi, a mugugnare, perché tanto il coraggio o la voglia di fare di più non l’abbiamo. 

La nostra è una posizione comoda ma pericolosa: aspettando di agire in contropiede si rischia di prendere i gol frutto dell’azione degli altri. Questa regola vale nel calcio come in qualsiasi altro settore e sarebbe il caso che ce ne accorgessimo presto, magari lasciando gli spalti e scendendo in campo a giocare.