Secondo un’indagine compiuta dai centri antiviolenza D.I.Re., che associa 84 organizzazioni ed oltre 60 case rifugio, nel 2020, nel nostro Paese si sono verificati oltre 100 femminicidi. Nel 72,3% dei casi l’assassino è un partner o un ex partner.
Si arriva all’82,3% se ci si riferisce alla cerchia familiare. Nel 76,4% degli episodi si tratta di un italiano, nel 47,6% l’uomo ha un lavoro, mentre solo nel 15% il responsabile del delitto ha una qualche forma di dipendenza.
Nel 2020, le donne accolte nei centri D.I.Re. sono state circa 20.000, mentre sono state 13.390 quelle che si sono rivolte ai centri antiviolenza.
Si tratta di dati che da soli ci descrivono una situazione particolarmente grave per la quale si fa ancora molto poco.
Centinaia di donne non denunciano per paura, altre perché non si sentono sufficientemente tutelate dalla macchina dello Stati, altre ancora perché temono di perdere il sostegno economico che gli deriva dal partner o dal familiare.
Alcune non denunciano perché temono ritorsioni oltre che su se stesse, anche sui figli o su altri familiari.
E poi c’è un problema di educazione. In questo campo il volontariato fa molto ma non può fare tutto né a sostegno delle vittime, né per tentare di costruire forme di prevenzione che impediscano il formarsi di una mentalità violenta da parte dei carnefici, o che nei loro riguardi possa essere realizzato un percorso di rieducazione e di recupero, ma che possano essere anche programmate efficaci forme di controllo e di repressione.
Da qualche tempo a Catania, come accade anche in altre città, opera un’associazione, Ius Agathae, composta da avvocati, medici, commercialisti, psicologhe, che si occupa di svolgere attività di assistenza nei confronti delle donne, degli appartenenti alla comunità LBGT e dei bambini bullizzati vittime di violenza.
Si tratta di un’attività encomiabile e di straordinaria importanza, che avrebbe bisogno di maggiore visibilità e soprattutto di maggiore collaborazione da parte delle istituzioni pubbliche.