L’anno scorso si era paventata la possibilità che, agli esami di maturità, sarebbe potuta saltare la prova scritta di italiano.
Ove si fosse proceduto in tal senso si sarebbe trattato di un gravissimo errore che avrebbe peggiorato ulteriormente la già penosa situazione della scuola italiana.
Tuttavia, la scuola ci ha abituato a questo ed altro, dunque, non mi stupisco affatto che si fosse potuto arrivare a tanto.
Il cosiddetto “diritto al successo formativo” introdotto dalla riforma Berlinguer e perpetrato dalle successive (di centrodestra e di centrosinistra), che non sono state meno disastrose, rappresenta la forma aulica di quel “diritto alla promozione”, che dalle rivolte studentesche del ‘68 in avanti, fu spacciato come “diritto allo studio”, ma che punì irrimediabilmente tutti quei ragazzi le cui condizioni di partenza erano più arretrate riaspetto a quelle di altri.
Scambiare il “diritto alla promozione” con il “diritto allo studio” fingendo che si tratti della stessa cosa è come scambiare il “diritto al lavoro” con il “reddito di cittadinanza” per chi non ha voglia di fare nulla e di poltrire a spese di chi paga onestamente le tasse.
Saltare la prova di italiano in un Paese dove l’analfabetismo funzionale sommato al tradizionale analfabetismo riguarda parecchi milioni di cittadini, vuol dire aumentare ulteriormente il già elevato numero di persone, molte al Sud, che presentano gravi lacune nella capacità di “far di conto”, nel comprendere ciò che leggono, nello scrivere in maniera comprensibile, ciò che pensano.
Insomma, vuol dire contribuire ad abbassare la qualità culturale dei cittadini, allontanandoli sempre di più da un mondo esasperatamente globalizzato, in cui la comunicazione e la competenza rappresentano due dei pilastri più importanti della vita di tutti i giorni.
Mi auguro che i “geni” del Ministero, pandemia o non pandemia, ci ripensino e garantiscano l’effettuazione della prova scritta di italiano e magari, presi da un “irrefrenabile impeto di buonsenso”, migliorino l’insegnamento della nostra lingua, della cultura civica e delle altre materie indispensabili a fare di un ragazzo un buon cittadino.
Se poi riuscissero a comprendere che “diritto allo studio” non vuol dire affatto “diritto alla promozione”, ma diritto ad essere aiutati a studiare meglio, soprattutto se si parte da condizioni peggiori, e dunque di poter usufruire di pari opportunità, anche se non si dispone di pari reddito o si vive in città o quartieri disagiati, allora, forse, avremmo raggiunto il massimo della democrazia vera, non di quella che, per anni, è stata spacciata per tale al fine di livellare verso il basso l’indice di conoscenza di chi non si può permettere l’insegnante di doposcuola.