di Vito Pirrone
La Corte di Appello penale di Torino, con una sentenza emessa il 7 luglio u.s. , in un processo per stupro, ha assolto l’imputato, ribaltando il verdetto di primo grado , affermando che “ non si può affatto escludere che al ragazzo, la giovane abbia dato delle speranze, facendosi accompagnare in bagno, facendosi porgere i fazzoletti e tenendo la porta socchiusa, aperture lette certamente dall’imputato come un invito ad osare. Occasione che non si fece sfuggire. Al momento dei fatti la ragazza era alterata per uso smodato di alcol ed è quindi altamente probabile che non fosse pienamente in sé quando richiese di accedere al bagno, provocò l’avvicinamento del giovane che invero la stava attendendo dietro la porta, custodendo la sua borsetta. L’imputato era parso gentile ai presenti subito dopo i fatti, quando il pianto della ragazza aveva attirato altre persone, mostrando un atteggiamento molto lontano da quello dello stupratore . L’unico dato indicativo del presunto abuso potrebbe essere considerata la cerniera dei pantaloni rotta , l’uomo non ha negato di avere aperto i pantaloni della giovane, ragione per cui nulla può escludere che sull’esaltazione del momento la cerniera, di modesta qualità, si sia deteriorata sotto forzatura”.
Su tale decisione si è generato un diffuso dissenso nei media.
Invero, le sentenze si criticano e si contestano nelle sedi opportune, con gli strumenti previsti dal codice. Ed infatti, non si può entrare nel merito delle decisioni emesse dai giudici, sia perché non si conoscono gli atti, ed esse sono la risultante delle valutazioni e del dosaggio delle prove acquisite agli atti processuali; e non si può giudicare l’ esito del processo da una frase estrapolata dalla sentenza emessa.
Tuttavia, l’uso delle parole, delle espressioni, talvolta infelici, è tutt’altra cosa.
Una cosa è l’autonomia del giudice nella valutazione delle prove acquisite, altra è l’uso di espressioni che, veicolate dai media, possono diventare pericolose e potrebbero essere talvolta interpretate come aperture giurisprudenziali contro il rigore normativo.
Proprio in tali casi, il rigore semantico deve essere massimo, per evitare, come dice Carofiglio che si determini una “manomissione delle parole”, con gli effetti che possono derivare, come messaggi subliminali, specie per i non addetti ai lavori.
La narrazione e l’interpretazione dei fatti non è un’operazione neutra. La scelta delle parole (e delle espressioni) è dunque un atto cruciale e fondativo; esse sono dotate di una forza che ne determina l’efficacia e che può produrre conseguenze. Si potrebbe determinare una realtà fittizia: una alterazione che passa attraverso la scelta delle parole, che nella realtà investe aspetti della vita sociale.
Scriveva Primo Levi: “quante sono le menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante , impercettibile forza di penetrazione dei luoghi comuni ?”
Abbiamo smarrito il significato delle parole: chi detiene un potere ha una forza esterna che trascende il suo operato (che si diffonde alla collettività), con la parola e la “manomissione delle parole” e la loro costruzione logica.
Nell’epoca dell’ipocrisia del politically correct, l’espressione usata in sentenza “invito ad osare” è oltremodo infelice .
Se le decisioni dei giudici hanno anche lo scopo di prevenzione criminale diretta alla collettività, vanno modulate e semanticamente valutate espressioni che possono generare falsi messaggi subliminali, che nella mente di soggetti non accorti potrebbero giustificare comportamenti illeciti.
Questi casi dimostrano che il percorso per migliorare il sistema giustizia in Italia è ancora lungo ed articolato, un percorso che implica una contaminazione di qualità della nostra cultura giuridica ed ancor più contro la cultura dello stupro e il fenomeno del victim blaming, che avalla l’idea che” la donna se la sia cercata”. Basti ricordare i casi dello stupro “consenziente” perché “ indossava jeans attillati”, o “aveva un vestito troppo corto”.