Alle ultime elezioni europee, in Italia, la percentuale dei votanti fu del 57%, in Spagna del 44%, in Germania del 48%, nel Regno Unito del 35%, in Romania del 32%, in Ungheria del 29%. Il Paese in cui andò a votare la più alta percentuale di aventi diritto fu il Belgio, con l’89,6% e quello che registrò la più bassa fu la Repubblica Ceca, con il 18,2%.

Gli altri Paesi sono tutti dentro questa “forbice”, confermando la grave e generalizzata disaffezione degli elettori nei confronti della politica, con una tendenza che punta ad un ribasso ulteriore dei votanti. 

Non è vero, però, che: “mal comune, mezzo gaudio”; semmai è vero il contrario, nel senso che il calo di interesse per la politica, manifestato nel momento della sua massima espressione democratica, cioè in occasione delle elezioni, conferma una pericolosa deriva, tendenzialmente populista, che non lascia presagire nulla di buono!

Liquidare questo fenomeno con un’analisi frettolosa e imprecisa potrebbe costituire un elemento che, per l’eterogenesi dei fini, piuttosto che spingere i cittadini a tornare alle urne, potrebbe allontanarli ulteriormente. 

Mi sforzerò, quindi, di indicare quelle che, a mio parere, sono le ragioni per le quali l’Italia e il resto d’Europa si trovano oggi in questa situazione, partendo da ciò di cui si parla meno: l’irrilevanza della politica, intesa come bene comune espressione del popolo, attraverso i suoi rappresentanti.

Se oltre la metà dei cittadini non va a votare, infatti, solo in parte è dovuto alla impossibilità di scegliere la propria classe dirigente, ormai selezionata da ristrettissime oligarchie; solo in parte è dovuto alla scadente qualità del personale politico, per il quale si richiede fedeltà al capo, piuttosto che competenza!

Se oltre la metà dei cittadini non va a votare non è solo legato al fatto che, troppo spesso, l’eletto cambia partito e schieramento, tradendo gli impegni programmatici; non è solo attribuibile alla sempre più scarsa cultura civica dei cittadini medesimi, né all’insoddisfazione che essi nutrono nei confronti dell’azione dei governi.

A mio avviso, la ragione più profonda, ma anche più grave, risiede nella consapevolezza che la politica sia ormai del tutto irrilevante, perché chi decide realmente le sorti del nostro e degli altri Paesi non è eletto, ma è frutto di scelte che non sono affatto il frutto della democrazia!

Le decisioni europee e intercontinentali sono legate ad organismi frutto di accordi globali che sfuggono alla volontà dei cittadini. 

Il G7, il G8, il G20, il WTO, il Presidente della Banca Centrale Europea, i vari Commissari UE e tanti altri organismi, spesso del tutto destrutturati, come le Conferenze Internazionali, dalle cui decisioni dipendono le sorti di interi continenti e di interi settori, infatti, non sono eletti dal popolo!

Per non parlare delle numerose lobby: la Trilaterale, le Sette sorelle, le multinazionali del settore alimentare o, ancor di più, quelle delle farmaco che, in barba alle velleitarie disposizioni vigenti, impongono i loro “cartelli” e le loro regole!

E che dire della burocrazia e della giustizia? Le quali, in un modo o nell’altro, sfuggono a qualsiasi controllo democratico e persino professionale, costituendo la vera casta degli intoccabili.

In queste condizioni qual è lo spazio che resta al cittadino per esprimersi? Qual è il peso che ha realmente il suo voto? Ha senso ancora il suffragio universale? O forse sarebbe più corretto modificare le regole di rappresentanza della democrazia?

Se la politica non saprà indicare risposte valide a queste e ad altre domande difficilmente riuscirà a riportare gli elettori ai seggi. 

Ma forse è proprio questo l’obiettivo: forse ridurre il numero di votanti, dunque aumentare il peso pro-capite di quelli che vanno a mettere la scheda nell’urna, ne consente un maggiore controllo. 

Può essere che sia così! Certamente un minor numero di partecipanti alle elezioni facilita e stabilizza il loro esito ma gli altri, la maggioranza, quelli che hanno rinunziato a partecipare, fino a che punto saranno disponibili a sopportare scelte compiute sulla loro testa?

Se i cittadini fossero liberi, i margini di tolleranza sarebbero ristrettissimi; ma sono liberi i cittadini che cedono al fisco oltre il 70% del proprio reddito? Sono liberi quei popoli che registrano un tasso di disoccupazione che supera il 20%? Sono libere quelle persone alle quali si garantisce un diritto alla studio fondato non sulla preparazione bensì sulla promozione?

È libera quella società in cui burocrazia, giustizia e sanità non funzionano e dove la criminalità e la corruzione hanno raggiunto livelli di assoluta intollerabilità?

Immagino che stiate pensando all’Italia: fate bene! Ma pensate pure a Giorgio Gaber perché è vero: “libertà è partecipazione” e comunque, ad oggi, al voto non ci sono alternative!