“Il trono della democrazia”: può sembrare il titolo curioso di un romanzo ambientato nel medioevo, può sembrare un ossimoro, o forse può apparire come un modo cervellotico per sollevare un problema, magari partendo da lontano. 

Per quanto mi riguarda è un’immagine ben precisa: quella di un Paese, il nostro, che è retto, al momento, da una “democrazia regnante”, la quale pretende di governare in maniera quasi assolutistica, senza consultare nessuno, ma fingendo di rispondere al popolo, anche grazie ad una consistente copertura mediatica sui social. 

Comprendo che il concetto possa apparire complesso, dunque, tenterò di essere più chiaro, evitando quegli spiacevoli, o talvolta interessati, equivoci pruriginosi, che sono tanto di moda nel web. 

Può esserci democrazia senza libertà? La risposta, purtroppo, è sì. In alcuni Paesi, in quelli arabi in particolare, ma non solo, i governi si reggono su costituzioni formalmente democratiche, tant’è che vi si tengono elezioni “bulgare”, con percentuali di maggioranza, piuttosto sospette, che talvolta vanno ben oltre l’80%.

In qualcuno di quei Paesi, formalmente, c’è pure libertà di stampa, alcuni si sono persino dotati di una carta dei diritti umani, ma si tratta solo di pura apparenza, in realtà, la libertà è solo di facciata: lì si decapitano, o si lapidano, i dissidenti e le adultere, si amministra la giustizia in maniera teocratica, si fa un uso ordinario della violenza, ecc. 

Può esserci libertà senza democrazia? Decisamente no; perché non può esserci libertà senza il rispetto di tutti i cittadini, dunque, non può esserci senza la responsabilità di ciascuno, senza la condivisione generale delle regole di convivenza, senza equità, senza pari opportunità, senza rispetto per la dignità, insomma, volendo giocare con le parole, non può esserci libertà senza democrazia. 

La libertà, quindi, non è autosufficiente, infatti, abbiamo appena detto che essa deve necessariamente coniugarsi con la responsabilità, ma anche con l’equità e con la socializzazione di parte della ricchezza. Ho parlato di socializzazione della ricchezza, non di semplice solidarietà, né di elemosina, né di iper-tassazione o di iniqua vessazione fiscale; ho detto equità, non eguaglianza. 

La differenza tra i concetti espressi esiste e non è secondaria: la prima punta ad un riequilibrio delle condizioni di partenza, attraverso una differente distribuzione della ricchezza e delle opportunità in maniera, appunto, equa; la seconda, più semplicisticamente, presuppone che le differenze non esistano e pertanto punta a realizzare la pericolosa uniformità.  

Il distinguo è netto anche nel caso della socializzazione della ricchezza: in quanto essa prevede equilibrate politiche di investimento, rivolte a sostenere il Prodotto Interno Lordo e, con esso, forme dignitose di occupazione produttiva.  

Differente è il concetto di solidarismo, che si risolve in forme più o meno fantasiose di elemosina pubblica, così come è profondamente diverso da questa il senso di solidarietà, che costituisce un dovere di convivenza, soprattutto in alcuni casi, per esempio quando i cittadini si trovano nell’impossibilità oggettiva di partecipare alla formazione della ricchezza del Paese, magari perché affetti da gravi patologie. 

La democrazia falsa e plutocratica è sul trono quando ritiene che il potere che essa esercita sia legittimato esclusivamente dalle percentuali che consegue, ma resti assoluto sempre, come quello di un monarca, cioè non sia, in nessun caso, bilanciato e distribuito tra le sue diverse componenti istituzionali. 

La democrazia liberale, invece, è quella che ripartisce produttivamente una parte della ricchezza, rispetta la minoranza, in una logica di alternanza, costruisce paesi sani, civili, sicuri,  ricchi, operosi, giusti e amati, non per la passività nella quale riduce i suoi abitanti, sovvenzionandone l’immobilismo, ma per la cultura dell’operosità che sostiene e stimola. 

Forse è il caso che il popolo italiano “detronizzi” rapidamente questa insopportabile democrazia faziosa, invidiosa, imperante e pasticciona. 

Forse è il caso che un deciso cambiamento parta proprio dalla Sicilia, laboratorio politico da sempre, una terra in cui sorse il primo parlamento ed in cui, sconvolgendo le regole di quel tempo, un monarca fu eletto dall’aristocrazia dell’isola, che negò l’altrui diritto ereditario e difese le proprie prerogative.

Credo che il tempo di una riscoperta assunzione di responsabilità e di un rinnovato orgoglio sia venuto per alcune semplici ragioni: nessuno sarà mai disponibile a fare qualcosa per noi siciliani, se non noi stessi; l’asse della democrazia che al momento si trova sul trono è fortemente spostato a nord. 

Infine, per chi ritenesse corretto il metodo del “reddito soporifero”, le risorse eventualmente necessarie per consentirci di rimanere immobili appaiono soltanto virtuali e comunque sono del tutto insufficienti.

Non ci vorrà molto a dimostrare questi pochi semplicissimi assunti. Per quel tempo, però, bisognerà essere pronti al cambiamento vero o l’occasione sarà perduta.