Ci sono fasi storiche nel corso delle quali o superate le quali nulla torna più come prima. Nel bene e nel male, è molto probabile che quella che ci accingeremo a vivere nei prossimi mesi rappresenterà proprio una di queste fasi, ai cui effetti bisogna prepararsi bene, a più livelli e nei vari settori. 

La pandemia scatenatesi in tutto il mondo ha lasciato una scia di privazioni, di dolore e di morte, sia in Europa, sia in Italia, facendo emergere con drammatica chiarezza l’inadeguatezza delle logiche sovraniste, rispetto a problematiche che assumono valenza globale. Questioni molto complesse, che vanno affrontate e risolte come tali, anche attraverso formule nuove di collaborazione istituzionali, nuovi modelli da realizzare sia sul piano organizzativo sia sul piano politico e strutturale. 

Alla luce di quanto sta accadendo e della evidente incapacità dei singoli stati di affrontare e risolvere individualmente problemi del genere, che possono non essere soltanto di natura sanitaria, ma anche di altro genere, si impone un profondo ripensamento di istituzioni come l’Unione Europea. 

Insomma, l’U.E. non può restare a metà del guado, manifestando criticità, insufficienze o impreparazioni in tutto quello che vada oltre le questioni legate alle disposizioni sulla concorrenza, peraltro fortemente condizionate da interessi di natura lobbistica, e la politica monetaria, con tutto ciò che vi si lega. 

Se il Vecchio continente non vuole essere travolto dai tempi e dalle questioni a ciò connessi, se non vuole precipitare nel vuoto funzionale, se non vuole apparire inadeguato ad affrontare fatti che vadano al di là del calcolo dello spread o della lunghezza del gambo dei carciofi, deve decidere se preferisce essere solo uno strumento finanziario, oppure diventare regolatore generale di comportamenti giudiziari, sanitari, di difesa, di politica estera, ecc.

Ritardi in decisioni di questa valenza rischiano di allontanare ulteriormente l’Europa dai cittadini, una circostanza che potrebbe travolgere non solo gli aspetti negativi, com’è auspicabile, ma anche quelli positivi, che non sono pochi e che ci hanno garantito settant’anni di pace. 

Nel contesto di un auspicato recupero e rinnovamento dei propri valori fondanti, quelli voluti da De Gasperi, Schuman, Monnet, Adenauer, Spaak, Spinelli, ecc. l’Unione Europea deve stabilire se vuole schierarsi al fianco dei popoli e delle loro esigenze reali o al fianco delle multinazionali. 

Nella condizione in cui al momento si trova, l’U.E. deve stabilire se stare accanto all’economia finanziaria, con la volubilità delle borse, o all’economia reale, fatta di piccole e medie imprese, di professionisti, di lavoratori, ecc. ma deve decidere pure se vuole schierarsi dalla parte delle libertà e dei principi contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo o dalla parte delle esigenze del Web e dei suoi invadenti gestori, stabilendo pure se vuole rimanere a 27 o vuole diventare altro. 

Infine c’è il tema più articolato riguardante la sua collocazione geopolitica, i rapporti con l’Africa, con l’Asia, con le grandi potenze economiche e con i possessori delle più importati fonti energetiche, argomenti centrali in qualsiasi modello di sviluppo.  

In questo quadro, anche la Sicilia deve decidere rapidamente cosa essere e cosa fare per se stessa e per i propri cittadini. Vuole essere solo un mercato di consumo, un grande “buen retiro”, subalterno agli andamenti economici globali, un “pensionificio” assistito, oppure un grande centro propulsore di sviluppo, di produzione, di servizi e di cultura? 

La nostra regione vuole essere un deposito di voti per i partiti nazionali, alle cui logiche vendersi per un “pugno di seggi”, o vuole strade, autostrade, ferrovie, ponte, scuole e la piena applicazione dello statuto? 

Qualunque sia lo spazio che la Sicilia riuscirà a costruirsi, qualunque sia il modello a cui intenderà guardare, ci sono alcuni elementi che non possono essere trascurati e che partono dall’immediato varo di un piano di perequazione sociale ed infrastrutturale, dall’esatto calcolo delle somme che le spettano, in virtù delle proprie prerogative statutarie, dalla ridefinizione o dall’abrogazione del sistema della cosiddetta spesa storica, che la penalizza in maniera assoluta ampliando il già enorme divario esistente con le aree più forti del nostro paese.

Sciogliere questi nodi, rispondere a queste domande vuol dire guardare ad un futuro migliore e più adeguato, girarsi dall’altra parte vuol dire condannarsi a pagare i debiti che qualcuno ha contratto anche in nostro nome: debiti che continueranno ad arricchire chi è già ricco e ad impoverire chi è già povero.