L’educazione civica, della cui colpevole assenza, in alcuni programmi didattici, ci si lamenta spesso, non può riguardare soltanto elementi di organizzazione dello Stato o nozioni di diritto costituzionale, deve rappresentare, invece, una sorta di riassunto ragionato degli elementi di base, essenziali, anzi indispensabili ad assicurare una convivenza civile.

Non basta, infatti, sapere che l’Italia è una Repubblica democratica di tipo parlamentare, bisogna spiegare che il suo essere fondata sul lavoro, implica una serie di condizioni, che a questo non possono che essere collegate, a cominciare dal nesso tra una prestazione e il suo corrispettivo compenso economico.

Mio nonno, Salvatore Fleres, Cavaliere di Vittorio Veneto, capotreno delle Ferrovie dello Stato, uomo di grandi doti morali, di inflessibile rigore comportamentale ma di notevole ironia, fin quando ha fatto parte della comunità dei vivi, è stato, per me, unico nipote maschio, un importante punto di riferimento, soprattutto per gli aspetti educativi, intesi nel senso più ampio del termine.

Quando ero bambino, infatti, era lui che, spesso, mi accompagnava a scuola, era lui che, quando poteva, mi portava a passeggio e fu lui che mi insegnò il valore del denaro e l’inscindibile nesso che esso deve necessariamente avere con il lavoro: “guai se così non fosse!” Mi diceva. “Vivremmo in una società priva di senso del dovere!”

Le sue non erano semplici enunciazioni teoriche, né le solite cose che si dicono ai nipoti, tant’è che mio nonno fu il mio primo “principale”, quando avevo, si e no, cinque anni.

No, non allarmatevi, non si trattava di sfruttamento di minore, perché lui, convinto sostenitore della sinistra vera, non riusciva nemmeno a concepire l’idea che un uomo potesse sfruttare un altro uomo.

E allora? Vi chiederete! Ebbene, mio nonno Salvatore, giocando con me “a farmi fare il grande”, mi insegnò a rispettare il denaro, frutto di un’occupazione e del conseguente sacrificio, attraverso un sistema che si rivelò assolutamente chiaro ed efficace.

Lui, con impegno e pazienza certosina, elaborò una sorta di listino prezzi, per ciascuna attività che io avrei dovuto svolgere, per contribuire, nel mio piccolo, all’organizzazione quotidiana della nostra famiglia.

C’era una tariffa per ogni attività: per la produzione della mollica, attraverso la macinatura del pane duro, che a quel tempo si conservava; c’era una tariffa per l’annaffiatura delle piante del terrazzo e dei balconi; c’era una tariffa per l’acquisto del giornale, insomma, ogni piccola commissione prevedeva un compenso, che veniva regolarmente annotato in un brogliaccio.

In questo modo, tanto chiaro quanto efficace, ma per nulla banale, mi fu del tutto facile comprendere, ad esempio, che un soldatino americano mi sarebbe costato tre annaffiate, mentre per comprarmi un gelato avrei dovuto macinare due chili di pane duro; per potermi comprare l’arco con le frecce ed il bersaglio, invece, ricordo che ci volle quasi un mese di lavoro!  

Ricordo pure che non ottenni mai alcun premio, per i miei “successi” scolastici: “studiare è un tuo dovere”, diceva mio nonno, mentre guardava compiaciuto la mia pagella. “Lo studio resta a te e tu, se sarai bravo, te ne gioverai quando sarai grande e avrai una famiglia da mantenere. Noi,” aggiungeva, “per mandarti a scuola, stiamo già pagando, non possiamo pagare due volte!”

Il ragionamento di mio nonno non faceva una grinza, era chiaro, logico, efficace e rispettoso. Credo che non dimenticherò mai le sue parole e il suo esempio che, dopo qualche anno, per quanto ho potuto, ho cercato di trasferire a mia figlia.

Il nesso tra il lavoro e il compenso è un nesso inscindibile, per il semplice fatto che è del tutto innaturale che qualcuno possa aspettarsi che altri lavorino per garantirgli un salario gratis, cioè che non sia il frutto di una prestazione.

Voi direte: è la solidarietà? Beh, la solidarietà costituisce un obbligo, anch’esso insito nell’essenza umana, o se preferite in quella parte di educazione civica alla quale facevo prima riferimento, ma non può che essere rivolta a chi versa in condizioni di difficoltà indipendenti dalla sua volontà, non in chi le sceglie come stile di vita!

La solidarietà non può costituire il pretesto per chi non ha voglia di adempiere al proprio dovere di contribuire, come gli è oggettivamente possibile, alla vita della società nella quale vive.  

Se, coloro i quali propongono redditi che siano indipendenti da equivalenti prestazioni,  avessero avuto un nonno come il mio, pronto a spiegargli il valore del denaro e del lavoro, chiarendo che ad ogni diritto corrisponde un dovere e che i diritti sono cose diverse dalle concessioni, probabilmente avrebbero evitato di illudere gli italiani, ai quali, talvolta, fa comodo illudersi, prima e lamentarsi, poi!

Anche sul vittimismo mio nonno aveva le sue teorie e i suoi efficacissimi rimedi, ma di questo parleremo in un’altra occasione!