Secondo gli ultimi dati ufficiali, la burocrazia costa alle imprese italiane circa 30 miliardi di euro l’anno. 

Anche in questo importante settore, il Sud risulta essere particolarmente penalizzato, rispetto al nord, dato che, con i suoi 8.125 euro per azienda, registra costi superiori, di oltre 200 milioni di euro, alla media nazionale, che è pari a 7.900 euro. 

Se la statistica fosse stata fatta in termini temporali, piuttosto che monetari, avremmo notato come il costo per azienda, in questo caso, si aggiri intorno alle 20 giornate lavorative: assolutamente insopportabile, soprattutto per le realtà produttive di dimensione più contenuta, cioè la maggioranza! 

Le imprese che si occupano di ristorazione, poi, in questa drammatica statistica molto italiana, sono quelle maggiormente colpite da ciò che potremmo ironicamente definire “burovirus”, vale a dire quel particolare virus che provoca la “burocratite”, un male che può provocare persino la morte! 

Per le aziende in questione, infatti, si tratta di spendere in “carte”, timbri, autorizzazioni, concessioni e certificati, oltre 11.100 euro l’anno. La cifra scende per il settore del commercio, con 7.381 euro l’anno e in quello manifatturiero, che si ferma a quota 5.800 euro circa.  

Certo, la situazione non appare tra le più felici, anche perché gli imprenditori, soprattutto al sud, non navigano in buone acque nemmeno in termini fiscali e di mercato: ma forse questo determinante particolare sfugge a chi amministra il Paese da dietro una scrivania.

Ad ogni modo, parlare di burocrazia in questi termini potrebbe apparire generico, quindi, per non cadere nell’errore, mi permetto di adoperare un esempio: non è mio, ma il suo autore, che è un carissimo amico, mi perdonerà se lo utilizzerò senza riconoscergli il copyright. 

Per esprimere il concetto secondo il quale il furto è ingiusto e illegale, la tavola dei dieci comandamenti, consegnata da Dio a Mosè sul monte Sinai, al settimo precetto, con assoluta chiarezza, dice: non rubare. 

A Nostro Signore, per esprimere il dettato secondo il quale è sbagliato appropriarsi di beni altrui, sono state sufficienti solo due parole. 

Ora, è vero che noi non possiamo assolutamente competere con la sapienza e l’onniscienza di  Nostro Signore, ma passare dalle due parole della Tavola delle leggi di Mosè, alle circa mille della relativa parte del Codice penale italiano, costituisce un salto verbale veramente assurdo; per restare in tema, direi: antieconomico! 

Vi chiederete il perché di una tale verbosità e magari state già pensando che essa serva a tutelare determinate specificità o ad evitare ingiustizie: magari!

Purtroppo vi state sbagliando! La complessità strutturale e formale del nostro sistema normativo, che prima ho semplificato con l’esempio del furto, è figlia solo dell’esigenza di stabilire un confine netto tra lo Stato, a cui spetta il diritto di essere complicato e pomposo, e il cittadino, che ha il dovere di conoscere la legge, pur se essa è del tutto incomprensibile! 

La legge, per definizione, “non ammette ignoranza”: da parte di nessuno, anche se è illogica, anche se è ingiusta, anche se, come verificato dall’ufficio studi del Senato alcuni anni addietro, ha una durata media di pochi mesi. 

Ecco perché, così stando le cose, risulta indispensabile prevedere e sostenere gli intermediari, i “legulei”, gli avvocati, i commercialisti, i patronati, i Caf, gli esperti, i consulenti i quali, nelle amministrazioni pubbliche, si chiamano “burocrati”, oppure “alti dirigenti”, mentre, nel settore privato, assumono l’altisonante qualifica di “professionisti” o quello, meno aulico, di “sbrigafaccende”. 

I burocrati, sia pubblici, sia professionali, sono particolarmente autoreferenziali, perché, grazie a certi legislatori con i quali si relazionano, alimentano se stessi; ma sono anche proletari, perché vivono del prodotto dei propri figli e della loro capacità di filiazione e complicazione procedurale. 

Se la burocrazia, che poggia il suo potere sulla citata complessità normativa, non fosse capace di riprodursi, di moltiplicarsi, di rigenerarsi, rischierebbe di estinguersi o di ridursi drasticamente, mettendo in pericolo la vita di tutti coloro che se ne nutrono. 

Forse, fin qui, ho svolto un’analisi troppo astratta. Allora è meglio che faccia un esempio concreto: sfido chiunque a dirmi cosa provochi la disposizione sotto riportata! 

L’inciso “dopo 10 anni”, di cui al comma 21 dell’art. 12 del DPR n. 431, del 18 agosto 2012, convertito con la legge n. 34 del 22 settembre 2012 e modificato dall’art. 45 del DPR n. 67, del 2 gennaio 2013, convertito con la legge n. 37 del 15 febbraio 2013 è sostituito dal seguente: “in nessun caso”.

Non sforzatevi per cercare di capire cosa significhi: è solo un esempio fra i tanti attraverso i quali si esprime il legislatore italiano quando, ispirato dal “burosauro” di riferimento, si trova nel pieno della sua attività “burocraziogena”. 

Purtroppo però, talvolta, la triste realtà supera di gran lunga la fantasia!