“In politica presumiamo che tutti coloro i quali sanno conquistarsi i voti, sappiano anche amministrare uno Stato o una città. Quando siamo ammalati chiamiamo un medico provetto, che dia garanzia di una preparazione specifica e di competenza tecnica. Non ci fidiamo del medico più bello o più eloquente.” (Platone)
Mai la frase del sommo filosofo fu più attuale di adesso. Eppure c’è ancora chi pensa che la politica non serva per realizzare il bene comune, ma per conquistare il potere, senza comprendere che l’unico potere che abbia un senso reale detenere è quello che realizza il bene comune, non certo la rigenerazione del potere medesimo, senza alcun altro nobile obiettivo.
Noi siciliani, ad esempio, in più occasioni, siamo caduti nella trappola di chi ci ha fatto credere che per cambiare le sorti della nostra regione sia sufficiente vincere le elezioni, inducendoci a schierarci spesso con il vincente in quanto tale, non in quanto portatore di un fondato progetto di sviluppo.
Accecati da questa convinzione, negli anni, e mi riferisco soprattutto al dopoguerra, ma non solo, siamo sempre corsi in soccorso del vincitore, lo abbiamo fatto con proterva determinazione, scambiando qualche modesto vantaggio personale per una svolta decisiva.
Nel corso della nostra storia, siamo stati conquistati e dominati decine di volte e ancora lo siamo. In cambio abbiamo avuto qualche privilegio, non sempre concreto e reale; qualche piccolo investimento, assolutamente insufficiente a garantirci lo stesso passo delle altre regioni; alcune miserabili tolleranze, legate al nostro modo di essere isole nell’Isola.
Insomma, ci siamo venduti per qualche pacco di pasta, per qualche falsa pensione di invalidità, per qualche comodo seggio in Parlamento, senza riuscire ad avere una visione generale delle cose, senza riuscire a progettare insieme un futuro fondato sui diritti, non certo sulle concessioni.
Oggi, con grande dolore per Platone ed in dispregio dei suoi saggi consigli, sta accadendo la stessa cosa e non c’è verso di capire e di far capire che il nostro livello di bene comune non si misura con quello di qualche furbo beneficiato, ma con quello dell’ultimo diseredato, la cui miseria rappresenta il metro attraverso il quale misurare la nostra.