Il passaggio dalla Sicilia del presidente cinese Xi Jinping, avvenuto qualche tempo addietro ed il modesto ritorno economico che probabilmente ne deriverà, con l’esportazione delle nostre arance nel Paese del Sol levante e poco altro, ripropone uno dei più antichi ed irrisolti problemi: quello riguardante il modo di essere, purtroppo, isole nell’Isola.
Il tentativo di penetrare strutturalmente in un mercato così ampio, parliamo di 1,4 miliardi di persone, con alcune decine di milioni di ricchi, porrà alcune questioni per le quali dovremo fare in fretta ad attrezzarci, per evitare di sprecare una complessa ed importante opportunità come quella di cui stiamo parlando.
Un Paese così vasto con un’utenza potenziale così ampia e variegata presuppone la costanza nei cicli di fornitura e la standardizzazione dei prodotti, ma soprattutto impone una interlocuzione commerciale forte e ben strutturata.
La domanda è: sapremo convincere i nostri produttori ad attenersi a precisi ed uniformi livelli qualitativi? Sapremo convincere i nostri commercianti a non ripetere gli errori del passato, quando all’estero si mandavano arance di pessima qualità coperte da uno strato di “prima scelta”?
Riusciremo, nelle condizioni in cui ci troviamo, con una proprietà contadina piuttosto puntiforme e mal organizzata, a ripetere l’exploit dei primi anni ‘60 del secolo scorso, che portò un noto e colorito esportatore catanese del tempo a telegrafare da Londra alla sua azienda dicendo “mandate arance a minchia piena”?
Mi auguro di sì, ma lo faccio senza molta convinzione, perché conosco la complessità del settore di cui stiamo parlando e conosco la scarsa propensione all’associazionismo d’impresa dei siciliani, secondo i quali “a pignata ‘ncumuni non vugghi”.
Il pessimismo, però, non ha mai portato nulla di buono, dunque non limitiamoci a sperare, operiamo in sinergia, che già sarebbe un buon passo in avanti. Magari, la prossima volta, insieme alle arance riusciremo a vendere anche altro, per esempio delle bellissime navi costruite nei cantieri navali di Palermo e processori elettronici prodotti nell’Etna Valley, possibilmente insieme a qualche pupo siciliano robotizzato dai giovani dell’ITIS Archimede di Catania.
Credo che sarebbe l’ottimo segnale di una urgente svolta culturale che riguarda tutti noi siciliani